Mercoledì mattina ho partecipato all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università San Raffaele di Milano. Si tratta di un ateneo privato, cresciuto negli anni con lo sviluppo dell’ospedale fondato da don Luigi Verzè e ora di proprietà della famiglia Rotelli.
Mentre ascoltavo il rettore elencare i successi raggiunti (70 corsi di laurea, quasi seimila studenti), ripensavo a una trasmissione tv del giorno prima in cui, come al solito, era messa a confronto la sanità pubblica con quella privata, ovviamente per criticare quest’ultima. La tesi offerta ai telespettatori era che negli ospedali pubblici si curano tutti, mentre negli altri solo quelli che hanno i soldi. In sostanza, si provava a dimostrare che si va verso una sanità per i ricchi, che poi è quello che Elly Schlein e compagni raccontano con la campagna in difesa di un presunto diritto violato alle cure per tutti.
In realtà, proprio il caso San Raffaele - ma anche l’Humanitas (altro grande ospedale privato di Milano) - dimostra il contrario di ciò che si vorrebbe sostenere. In Lombardia, accanto a centri di eccellenza pubblici, esistono diverse strutture sanitarie di proprietà di imprenditori o istituzioni finanziarie. Ma in quei pronto soccorso non si cura soltanto chi è in grado di pagare, ma tutti, indifferentemente dal reddito delle persone. E allo stesso tempo, con il meccanismo dell’accreditamento, qualsiasi cittadino che voglia farsi visitare o ricoverare può accedere agli ambulatori o alle corsie del San Raffaele o dell’Humanitas (ma anche di altri centri, come ad esempio il Monzino, istituto specializzato in problemi cardiovascolari, o lo Ieo, che Umberto Veronesi fondò 30 anni fa per la cura dei tumori). Per il paziente non cambia nulla: farsi curare al Niguarda o al San Raffaele, al Policlinico o all’Humanitas dal punto di vista dei costi che il malato deve sostenere qualora si rivolga ad un ospedale attraverso il Servizio sanitario nazionale è la stessa cosa. La Regione rimborsa alla struttura che eroga la prestazione esattamente la stessa cifra; dunque, anche per le casse pubbliche non cambia nulla, a differenza di quanto si vorrebbe far credere.
L’unica sostanziale diversità, tra ospedale pubblico e privato, sta nel fatto che il primo sa che paga Pantalone se non quadrano i conti, mentre il secondo deve sperare che il bilancio sia in equilibrio, perché in caso diverso rischia il fallimento, come quasi capitò anni fa proprio con il San Raffaele. La differenza poi sta anche nel fatto che, come avviene in quasi tutte le attività pubbliche, se non c’è una dirigenza efficace, una guida capace di far funzionare le cose, sprechi e malagestione abbondano, senza che nessuno paghi mai o venga rimosso. Mentre nel settore privato, se qualche cosa non va, il medico o il dirigente vengono allontanati, perché il posto non è per la vita, ma è garantito dai risultati.
Non voglio fare l’elogio della sanità privata, né sostenere che gli ospedali di grandi gruppi industriali siano meglio di quelli pubblici, ma spiegare che confondere il Servizio sanitario nazionale, conquista ottenuta in Italia molti anni fa, con il servizio erogato dagli ospedali privati è un errore. Così come esistono eccellenti scuole statali ne esistono altrettante private e non sempre per accedervi è necessario essere ricchi. Lo stesso vale per la salute. A me non importa che l’ospedale sia pubblico o privato: mi basta che mi curi nel migliore dei modi. Invece, per conservare baronie e difendere interessi e clientele, si fa una grande confusione, facendo credere all’opinione pubblica che la sanità privata sia un covo di imbroglioni, che specula sulla pelle dei malati. No, sono imprenditori che con le stesse regole assicurate negli ospedali pubblici mettono a disposizione degli utenti servizi di assistenza sanitaria, con prenotazioni, appuntamenti, visite e ricoveri come avviene in un ospedale controllato dalla Regione.
Mi chiedo: ma in Calabria, una delle regioni più disastrate dal punto della sanità (ricordavo ieri la vicenda di una bambina morta durante un viaggio della speranza che dalle pendici della Sila piccola doveva portarla in Liguria), visto che gli ospedali non sembrano funzionare, non sarebbe meglio qualche presidio sanitario privato? Penso che ai calabresi non importerebbe nulla sapere che il pronto soccorso è di proprietà un imprenditore. Ciò che conta è non finire al camposanto, come capitò anni fa a una ragazzina perché a Lamezia Terme non c’era un medico in grado di praticare una tracheotomia.