Nella mattinata di ieri Bruxelles ha diffuso una nota con l’intento di strigliare l’Italia. Tema in questione le case green. Messaggio: accelerare sulla ristrutturazione degli immobili a seguito delle normative approvate lo scorso inverno. Secondo il report sottostante, l’80% del consumo energetico finale degli edifici in Italia è rappresentato da riscaldamento e raffreddamento, con le rinnovabili che «forniscono appena il 21% del consumo energetico finale lordo». Nel 2023 sono state vendute nel Paese «circa 378.000 pompe di calore, con un calo del 26% rispetto alle vendite dell’anno precedente, raggiungendo uno stock totale di circa 4,1 milioni di pompe di calore installate». Sul fronte degli ammortizzatori sociali dei costi della transizione, nel report si ricorda ancora che l’Italia - al pari degli altri ventisei Paesi Ue - è chiamata a presentare a Bruxelles «entro giugno 2025» il proprio Piano nazionale sociale per il clima, cioè la tabella di marcia con cui potrà accedere ai finanziamenti del Fondo sociale che nascerà nel 2026 e fino al 2032 mobiliterà circa 86,7 miliardi di euro.
Nulla di nuovo se non la consueta insistenza. Peccato che a poche ore di distanza (ieri a metà pomeriggio) la Corte dei Conti Ue abbia diffuso una nota pubblica a esito dei lavori di valutazione della spesa del dispositivo per la ripresa e la resilienza (Rrf). Si tratta di un mega fondo da 700 miliardi di euro messo a terra per il rilancio post pandemico con l’obiettivo di agire per il clima e spingere la transizione green. Il titolo della nota è già esaustivo: «Il fondo Ue per la ripresa non è verde come dichiarato». A febbraio su 275 miliardi valutati (circa il 40% del totale) almeno 34 presentano problematiche di gestione e difficilmente migliorano il clima. «Per calcolare la percentuale dei fondi pianificati per l’azione per il clima», si legge nella nota, «la Commissione europea utilizza la formula del coefficiente climatico. Alle azioni che sono giudicate apportare un contributo sostanziale all’azione contro i cambiamenti climatici viene attribuito un coefficiente climatico del 100%; alle azioni che apporterebbero un contributo positivo, non marginale, viene attribuito un coefficiente del 40%, e ai fondi apportanti un contributo nullo un coefficiente dello 0%». Peccato che per molte misure manca una netta distinzione e gli auditor della Corte hanno constatato che, «in alcuni casi, i rispettivi contributi agli obiettivi climatici sono stati sovrastimati». Per di più, è emerso che alcuni progetti etichettati come verdi mancavano persino «di un nesso diretto alla transizione verde». C’è da scommettere che questa tirata d’orecchi non diventerà virale oggi. Molti giornali preferiranno omettere. Diversamente la strigliata di Bruxelles all’Italia troverà spazio ben più ampio. A noi il dovere di interrogarci. Non è la prima volta che i togati contabili fanno le pulci e trovano sprechi, irregolarità. Insistere con le stesse logiche sulle case che di per sé è un tema ancor più delicato per la stabilità dei conti pubblici dell’Italia (basta vedere quanto accaduto con il Superbonus) da «humanum» rischia di diventare «diabolicum». E non possiamo permetterci con il nuovo patto di Stabilità nemmeno errori minimi. La scusa e la patina verde non può più essere un mantello per nascondere né errori né altri interessi. Un po’ come accaduto con l’enorme massa di incentivi all’auto, erogati senza alcuna valutazione ex ante sugli effetti per la crescita economica. Tutti i 27 Paesi Ue hanno offerto lo scorso anno agevolazioni fiscali alle auto elettriche. Di questi 21 - escluso Belgio, Bulgaria, Danimarca, Finlandia, Lettonia e Slovacchia - hanno anche assegnato incentivi diretti per l’acquisto di veicoli a batteria. Solo Italia, Francia e Germania lo scorso anni hanno speso 5 miliardi. Terminata la sbornia, il mercato elettrico è crollato. E con la discesa della marea sono emersi i problemi che prima vedevano in pochi e che erano nascosti dallo storytelling (per usare un eufemismo) della Commissione Ue.
Solo con quei 5 miliardi quanti investimenti alternativi si sarebbero potuti spingere in un solo anno? È valsa la pensa spenderli per acquistare Tesla e altre auto cinesi. Ovviamente la domanda è retorica. Solo che adesso la bolla è arrivata in superficie e i mercati stanno chiedendo il conto. I titoli automotivi crollano in Borsa. Da Volkswagen fino a Stellantis, gli azionisti perdono e il valore delle società pompato negli ultimi anni di fronte alla realtà del mercato si sgonfia. Solo che stavolta non è così semplice. Alle società europee prima è stato chiesto di convertirsi all’elettrico (obbligo stop motori endotermici nel 2035) e ora che sono rimaste indietro almeno 4 anni con le tecnologie alternative non potranno da sole colmare il gap. O si tirano fuori altri soldi pubblici oppure dovremo incoronare stati come il Giappone che hanno cavalcato la loro onda personale. Prima l’ibrido e ora l’idrogeno. Notizia di pochi giorni fa l’accordo tra Toyota e Bmw per un sistema di celle a combustibile. Obiettivo vetture a idrogeno nel 2028. Non stiamo a entrare nel merito della bontà del progetto e delle immani difficoltà logistiche e di stoccaggio. Il tema è che recuperare quattro anni di ritardi tecnologi e di miliardi pubblici buttati al vento è quasi impossibile e per l’Europa rischia di essere la mazzata definitiva.