
Un altro giro di valzer. Nonostante le turbolenze fiorentine il Parlamento ha eletto i nuovi consiglieri della Rai in carica per i prossimi tre anni. E ha scoperto che Pd e Italia viva svegliandosi ieri mattina si sono dimenticati cosa sia la lottizzazione. I due partiti che negli ultimi 15 anni hanno occupato più di tutti poltrone, sgabelli e strapuntini facendo bistecche del cavallo morente di viale Mazzini, non hanno partecipato al voto (con Azione) perché avrebbero voluto invertire l’ordine dei fattori: prima la riforma della governance voluta dall’Unione europea (in adesione al Media freedom act che prevede un’indipendenza molto di facciata dei vertici), poi le nomine.
Così non è stato. La Camera ha indicato i giornalisti Federica Frangi in quota Fratelli d’Italia e Roberto Natale (ex presidente Fnsi ed ex portavoce di Laura Boldrini) in quota Alleanza Verdi Sinistra; il Senato ha rieletto Alessandro Di Majo del Movimento 5 stelle e il sempreverde Antonio Marano, sponsorizzato dalla Lega. Il ministero delle Finanze, azionista della massima azienda culturale del Paese, ha proposto per la presidenza Simona Agnes, fortemente voluta da Gianni Letta, e Giampaolo Rossi (Fdi) per il ruolo di amministratore delegato. L’iter è avviato, ora si prevede battaglia in Commissione di Vigilanza, che dovrà dare il gradimento alla presidente in pectore. Non dovesse esserci maggioranza - a oggi mancano due voti - e in attesa di un nuovo nome di garanzia, l’interim (che potrebbe durare molto a lungo) sarà affidato al consigliere anziano, vale a dire Marano.
Gli effetti immediati e più evidenti del tumultuoso ballo Rai sono due: la spaccatura del campo largo, con Giuseppe Conte da una parte ed Elly Schlein dall’altra, e il posizionamento di Matteo Renzi come mosca cocchiera del Pd sull’Aventino. Il leader di Italia viva è riuscito nell’intento di entrare nella foto ricordo accanto alla segretaria del Nazareno, accreditandosi come possibile alleato per conquiste future. Proprio lui, che grillini e rossoverdi non vogliono vedere neppure dipinto. Una replica dell’abbraccio della Partita del cuore, con una stupefacente giravolta entrata da tempo nel bagaglio renziano di ginnastica artistica: il Media freedom act dovrebbe smantellare una legge voluta da lui per prendersi tutto, ed entrata in vigore nel 2015 durante il governo di centrosinistra guidato da lui.
Ancora una volta Renzi ha vinto il premio Fregoli alla carriera. Glielo ha fatto notare Giuseppe Conte, che ha preferito andare in Aula a votare il proprio consigliere. «Noi siamo stati coerenti sulla Rai. Siamo con Avs, non capisco l’atteggiamento del Pd. Il cda del servizio pubblico non deve essere lasciato al governo, ma dev’essere presidiato anche dalle forze di opposizione. La spaccatura c’è stata, ma da parte del Pd che ha deciso di stare con Renzi. Avevano varato la riforma nel 2015 e adesso la disconoscono. È inutile che si lamentino: Giorgia Meloni non fa altro che applicare lo spoil system feroce contenuto in quella legge». Angelo Bonelli è sulla stessa lunghezza d’onda: «Lasciare a TeleMeloni anche il controllo totale del cda è una cosa che non riteniamo saggia. La realtà dice che il campo largo non esiste, perché se esistesse avremmo una situazione differente».
I toni dentro l’opposizione sono alti, Schlein sottolinea che «fino a ieri tutte le opposizioni condividevano la stessa posizione, non partecipare al voto». Maria Elena Boschi accusa chi ha votato «di avere fatto il gioco del centrodestra». Ma è ancora Conte ad avere l’ultima parola, girando il coltello nella piaga antica del Nazareno dove il renzismo è tutt’altro che scomparso: «Chi sceglie l’Aventino lo deve fare per le poltrone vere, le nomine delle direzioni di rete e di testata, quindi ci aspettiamo un Pd conseguente dopo decenni di segno diverso che fin qui ha dato alla Rai». Insomma volano gli stracci anche se l’argomento è surreale: la riforma in senso europeo è stata calendarizzata anche per l’impegno delle opposizioni ed è prossima ad arrivare in Parlamento. Ma Schlein è caduta nella trappola e Renzi può cominciare a gongolare: ecco che la zizzania verde si allarga nel pratone della sinistra disunita.
Terremotare a giorni alterni è il destino dell’ex premier, che si autodefinì statista ma è costretto a fare mosse da statistico (più un contabile che un notabile) per cercare di capitalizzare il 2% scarso di Italia viva dentro il campo larghissimo di Elly Schlein «già dalle prossime regionali». Ecco dunque la giravolta in Liguria, le aperture alla sinistra più rossa, l’alleanza con Maurizio Landini (quello che vorrebbe fare un referendum per abolire il Jobs act renziano) sulla consultazione contro l’Autonomia differenziata.
Per uscire dal tunnel dell’irrilevanza Renzi non ha problemi a passare dal riformismo al trasformismo. Ad accarezzare Elly Schlein dopo avere detto: «La fine del Pd ci sarà sia con lei al Nazareno che senza». A corteggiare Conte, bollato qualche mese fa come «un irresponsabile, un uomo senza dignità». Lo sgambetto tentato sul cda della Rai era semplicemente funzionale a questo disegno. Ma a differenza della segretaria piddina, l’avvocato del popolo non ci è cascato.



















