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2023-07-30
Beppe Sala spegne le luci a San Siro e fa fuggire Milan e Inter dalla città
Lo stadio Meazza. Nel riquadro, Beppe Sala (Ansa-IStock)
San Siro non si tocca, Milan e Inter se ne vanno e Giuseppe Sala passerà alla storia come il sindaco che ha fatto scappare i due club da Milano. È la sintesi di una partita infinita, ormai chiusa sullo 0-0 dopo cinque anni di catenaccio dell’amministrazione di centrosinistra. Ed è la conferma che al di là del marketing politico la metropoli lombarda non si discosta dal resto del Paese: immobile, incapace di progettare un futuro che non sia dipinto dal verde acido di Zerocalcare. La mossa del Comune è arrivata venerdì sera come un sospiro, quasi a liberare le due società da promesse, impegni, equivoci, camicie di forza procedurali.
«In merito al futuro di San Siro, il Comune fa sapere che non è ancora pervenuta una comunicazione ufficiale da parte della Soprintendenza, ma sembrerebbe ormai acclarata la scelta per un vincolo culturale semplice. Vincolo che di fatto impone, in concreto, che lo stadio rimanga lì dov’è. Si ricorda, ancora una volta, che il progetto di un nuovo stadio presentato dai due club contemplava l’abbattimento dell’attuale impianto». È la pietra tombale sulla Cattedrale progettata da Milan e Inter (investimento da 1,2 miliardi), che appunto prevedeva la distruzione dello storico stadio edificato nel 1926 per realizzare una nuova, ipermoderna cittadella dello Sport. Poiché nel 2025 saranno 70 anni dalla realizzazione del secondo anello, il vincolo si profilava da tempo come impedimento assoluto, evocato dal sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, e in via di concretizzazione da parte della soprintendente Emanuela Carpani per la felicità della giunta green che vede profilarsi il successo del «niet» dopo un catenaccio anni Sessanta.
La seconda parte del comunicato sembra scritta direttamente dal sindaco: «Se confermata, la decisione avrebbe conseguenze gravi non solo per il futuro dello stadio e per la sua sostenibilità economica, ma anche perché ridurrebbe di molto le possibilità che le squadre restino a Milano con un nuovo impianto». Il borgomastro ha colto il problema, da domani gli 8 milioni all’anno d’affitto (fin qui garantiti dai club) svaniranno e i 2 di manutenzione di una struttura affascinante e obsoleta - cercare un bagno è un viaggio nel tempo, si arriva dentro lo stadio Lenin di Mosca degli anni Novanta - saranno a carico dell’amministrazione.
Il Milan ha già cominciato il lungo addio. La società di Gerry Cardinale, che negli Stati Uniti gestisce impianti sportivi, ha opzionato l’area San Francesco a San Donato chiedendo una variante urbanistica per poter costruire la nuova casa. Un minuto dopo l’uscita del Comune anche l’Inter ha annunciato di aver acquisito «il diritto di esclusiva» fino al 30 aprile 2024 dell’area di Rozzano di proprietà dei gruppi immobiliari Bastogi e Brioschi per approfondire la possibilità di realizzare lo stadio e le funzioni accessorie.
Luci spente a San Siro, ma il totem resta in piedi. È la vittoria dei comitati civici, soprattutto di chi ha come priorità la salvaguardia del monumento del calcio milanese. Porta a casa il risultato innanzitutto Luigi Corbani, anima del comitato «Sì Meazza» che dal primo minuto è favorevole «alla ristrutturazione dell’esistente» e accusa Sala di essersi piegato agli interessi speculativi delle proprietà straniere dei due top club italiani. Anche l’Uefa, designando Milano per la finale di Champions 2026 o 2027, gli ha di fatto dato ragione. «L’idea di abbattere il Meazza era sbagliata e tutti hanno perso anni attorno a progetti inesistenti. La tutela architettonica è prevista in automatico, fino al 2026 non si poteva comunque toccare perché sede della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali». L’ex vicesindaco migliorista dell’era Dc-Psi-Pci non teme il rischio che il simbolo sportivo di Milano si trasformi in un rudere abbandonato. «San Siro può essere utilizzato per lo sport e lo spettacolo, basterebbe fare una gara internazionale, ammodernarlo e darlo in gestione a una società. Non esiste che si abbatta, è un impianto unico, un’icona nel mondo».
Per Sala, che ha tenuto il piede in tutte le scarpe scambiando tattica per strategia, è una disfatta assoluta. In un primo tempo ha deciso di non decidere, poi si è appiattito sulle richieste dei club in contrasto con gli interessi del Comune (volumetrie, aree commerciali, consumo di suolo), infine si è lasciato travolgere dall’ostruzionismo dei partner verdi. Qualche mese fa, quando ha colto le conseguenze dello stallo, ha alzato voce contro la sua maggioranza: «In due anni non avete fatto mezza proposta, siete stati capaci solo di dire no».
Con un dettaglio non evidenziato: il responsabile politico delle (non) scelte è lui. Come sottolinea il segretario milanese della Lega, Samuele Piscina: «La partita è finita, tergiversando per 12 anni, Sala e la sinistra hanno cacciato Milan e Inter dalla città. E lo stadio diventerà terra di nessuno». Adriano Galliani, che sull’erba dell’astronave di cemento ha vinto cinque Champions, non ha mai cambiato parere: «Andava abbattuto. Ciascuno di noi è romanticamente affezionato alle case delle nonne per i ricordi. Ma poi va a vivere altrove».
Milano è il cimitero dei nuovi alberi
Quello che si è venduto come il sindaco più ambientalista possibile per Milano inanella uno scivolone dietro l’altro proprio sul verde. Per Beppe Sala sono giorni di fuoco, anche se è di acqua che si sta parlando. Perché le polemiche alimentate negli ultimi giorni dalla cattiva gestione delle piante a Milano, alla base del crollo di alberi in tutta la città in occasione della tempesta di vento e ghiaccio di inizio settimana (Palazzo Marino ha trovato l’assassino perfetto nell’ormai onnipresente cambiamento climatico, anche se gli indizi di colpevolezza portano dritti a una manutenzione parecchio scarsa), hanno messo la sordina a un’altra spina dolente nel fianco green di Sala. Quella relativa al progetto ForestaMi.
Si tratta di un piano sbalorditivo: da qui al 2030 saranno piantati 3 milioni di nuovi alberi a Milano e nei comuni della Città metropolitana. Nato da una ricerca del Politecnico di Milano, sostenuto (tra gli altri) da Regione, Parco Nord, Fondazione Falck e Fs Sistemi urbani, ForestaMi vanta nientepopodimeno che Stefano Boeri nel suo comitato scientifico. Che sarà mai fare un bosco in orizzontale per lui è che è riuscito a costruirne uno in verticale?
Non è proprio così. Perché a rumoreggiare contro il progetto sono cittadini e movimenti ambientalisti che hanno sostenuto la candidatura di Sala in passato. E che adesso si trovano a guardare sbalorditi una grande operazione, certo, ma di facciata. Perché piantare gli arbusti è facile, mantenerli e farli crescere è difficile. E a Milano neanche ci provano. Dai dati ufficiali presentati alla fine della passata stagione agronomica, nel 2022 ben 16.000 alberi, tra adulti e neo piantati, sono morti. La colpa è stata data all’ondata di caldo della scorsa estate che aveva provocato settimane di intensa siccità. «Quando c’è moria di alberi, noi ripiantamo», aveva pomposamente annunciato mesi fa Sala. Ma per cercare la vera causa dell’ecatombe green a Milano, forse il sindaco dovrebbe guardarsi allo specchio. O, meglio, dovrebbe guardare in direzione dei propri uffici comunali. Perché a detta di residenti e attivisti, a mancare non è stata (solo) l’acqua piovana ma (soprattutto) la manutenzione e la cura. Tanto che, a ForestaMi, fanno da contraltare due movimenti nati spontaneamente dall’iniziativa dei milanesi: BagnaMi, che vede i cittadini impegnati a dare l’acqua di propria iniziativa alle povere piante abbandonate al proprio destino, e ForestaMi e poi DimenticaMi, che mette in fila e documenta il lato oscuro di ForestaMi.
Sui social questi guardiani degli alberi sono molto attivi, producono dossier anche fotografici con le criticità del progetto da 3 milioni di alberi, raccontando «una storia diversa rispetto alla narrazione ufficiale dell’infallibile piano ForestaMi, di cui siamo bombardati attraverso i media».
E nei cahier de doleances green c’è di tutto: impianti di irrigazione che non funzionano, autobotti insufficienti o «fantasma», annunci di bagnature anticipate definite «bluff», visto che dovrebbero essere garantite tutto l’anno e non solo nei mesi più caldi. «Le piante sono morte per incapacità, non per la siccità», ha tuonato a inizio anno lo storico consigliere ambientalista Carlo Monguzzi, «Milano è seduta su una falda che straborda, mungiamo ogni anno 60 milioni di litri dalla falda per non allagare la metropolitana. È un controsenso».
C’è talmente così tanta sciatteria nel progetto ForestaMi, definito una delle più grandi operazioni di greenwashing (ovvero, ecologismo di facciata) attivate in Italia che, per il secondo anno consecutivo, a maggio, in zona Bovisasca, un cittadino ha scoperto decine di alberi pronti per essere piantati ma abbandonati in un campo. Morti, stecchiti: un vero e proprio cimitero. Nel 2022 una scoperta simile era stata fatta in zona San Siro. Chissà che ne pensano i munifici sponsor di questo progetto. Chissà che ne pensano i 70.000 milanesi che l’assessore Pierfrancesco Maran ringraziava per aver sostenuto, lo scorso anno, con una donazione, ForestaMi. I «pacchetti» contributo partono da 30 euro e arrivano fino ai 100. Certo, c’è anche l’importo libero. Parte di quei soldi è stata gettata al vento.
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Dopo anni di melina il Comune si rassegna: «Soprintendenza verso il vincolo». Un fallimento che farà entrare il sindaco nella storia per aver sfrattato i club. Lasciando al capoluogo uno stadio che costa 10 milioni l’anno.Il progetto ForestaMi prevede la messa a dimora di 3 milioni di piante entro il 2030. Ma è solo facciata: nessuno le cura e muoiono. Oppure vengono gettate via nei prati.Lo speciale contiene due articoli. San Siro non si tocca, Milan e Inter se ne vanno e Giuseppe Sala passerà alla storia come il sindaco che ha fatto scappare i due club da Milano. È la sintesi di una partita infinita, ormai chiusa sullo 0-0 dopo cinque anni di catenaccio dell’amministrazione di centrosinistra. Ed è la conferma che al di là del marketing politico la metropoli lombarda non si discosta dal resto del Paese: immobile, incapace di progettare un futuro che non sia dipinto dal verde acido di Zerocalcare. La mossa del Comune è arrivata venerdì sera come un sospiro, quasi a liberare le due società da promesse, impegni, equivoci, camicie di forza procedurali. «In merito al futuro di San Siro, il Comune fa sapere che non è ancora pervenuta una comunicazione ufficiale da parte della Soprintendenza, ma sembrerebbe ormai acclarata la scelta per un vincolo culturale semplice. Vincolo che di fatto impone, in concreto, che lo stadio rimanga lì dov’è. Si ricorda, ancora una volta, che il progetto di un nuovo stadio presentato dai due club contemplava l’abbattimento dell’attuale impianto». È la pietra tombale sulla Cattedrale progettata da Milan e Inter (investimento da 1,2 miliardi), che appunto prevedeva la distruzione dello storico stadio edificato nel 1926 per realizzare una nuova, ipermoderna cittadella dello Sport. Poiché nel 2025 saranno 70 anni dalla realizzazione del secondo anello, il vincolo si profilava da tempo come impedimento assoluto, evocato dal sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, e in via di concretizzazione da parte della soprintendente Emanuela Carpani per la felicità della giunta green che vede profilarsi il successo del «niet» dopo un catenaccio anni Sessanta.La seconda parte del comunicato sembra scritta direttamente dal sindaco: «Se confermata, la decisione avrebbe conseguenze gravi non solo per il futuro dello stadio e per la sua sostenibilità economica, ma anche perché ridurrebbe di molto le possibilità che le squadre restino a Milano con un nuovo impianto». Il borgomastro ha colto il problema, da domani gli 8 milioni all’anno d’affitto (fin qui garantiti dai club) svaniranno e i 2 di manutenzione di una struttura affascinante e obsoleta - cercare un bagno è un viaggio nel tempo, si arriva dentro lo stadio Lenin di Mosca degli anni Novanta - saranno a carico dell’amministrazione. Il Milan ha già cominciato il lungo addio. La società di Gerry Cardinale, che negli Stati Uniti gestisce impianti sportivi, ha opzionato l’area San Francesco a San Donato chiedendo una variante urbanistica per poter costruire la nuova casa. Un minuto dopo l’uscita del Comune anche l’Inter ha annunciato di aver acquisito «il diritto di esclusiva» fino al 30 aprile 2024 dell’area di Rozzano di proprietà dei gruppi immobiliari Bastogi e Brioschi per approfondire la possibilità di realizzare lo stadio e le funzioni accessorie.Luci spente a San Siro, ma il totem resta in piedi. È la vittoria dei comitati civici, soprattutto di chi ha come priorità la salvaguardia del monumento del calcio milanese. Porta a casa il risultato innanzitutto Luigi Corbani, anima del comitato «Sì Meazza» che dal primo minuto è favorevole «alla ristrutturazione dell’esistente» e accusa Sala di essersi piegato agli interessi speculativi delle proprietà straniere dei due top club italiani. Anche l’Uefa, designando Milano per la finale di Champions 2026 o 2027, gli ha di fatto dato ragione. «L’idea di abbattere il Meazza era sbagliata e tutti hanno perso anni attorno a progetti inesistenti. La tutela architettonica è prevista in automatico, fino al 2026 non si poteva comunque toccare perché sede della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali». L’ex vicesindaco migliorista dell’era Dc-Psi-Pci non teme il rischio che il simbolo sportivo di Milano si trasformi in un rudere abbandonato. «San Siro può essere utilizzato per lo sport e lo spettacolo, basterebbe fare una gara internazionale, ammodernarlo e darlo in gestione a una società. Non esiste che si abbatta, è un impianto unico, un’icona nel mondo».Per Sala, che ha tenuto il piede in tutte le scarpe scambiando tattica per strategia, è una disfatta assoluta. In un primo tempo ha deciso di non decidere, poi si è appiattito sulle richieste dei club in contrasto con gli interessi del Comune (volumetrie, aree commerciali, consumo di suolo), infine si è lasciato travolgere dall’ostruzionismo dei partner verdi. Qualche mese fa, quando ha colto le conseguenze dello stallo, ha alzato voce contro la sua maggioranza: «In due anni non avete fatto mezza proposta, siete stati capaci solo di dire no». Con un dettaglio non evidenziato: il responsabile politico delle (non) scelte è lui. Come sottolinea il segretario milanese della Lega, Samuele Piscina: «La partita è finita, tergiversando per 12 anni, Sala e la sinistra hanno cacciato Milan e Inter dalla città. E lo stadio diventerà terra di nessuno». Adriano Galliani, che sull’erba dell’astronave di cemento ha vinto cinque Champions, non ha mai cambiato parere: «Andava abbattuto. Ciascuno di noi è romanticamente affezionato alle case delle nonne per i ricordi. Ma poi va a vivere altrove». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/beppe-sala-san-siro-2662589766.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="milano-e-il-cimitero-dei-nuovi-alberi" data-post-id="2662589766" data-published-at="1690703945" data-use-pagination="False"> Milano è il cimitero dei nuovi alberi Quello che si è venduto come il sindaco più ambientalista possibile per Milano inanella uno scivolone dietro l’altro proprio sul verde. Per Beppe Sala sono giorni di fuoco, anche se è di acqua che si sta parlando. Perché le polemiche alimentate negli ultimi giorni dalla cattiva gestione delle piante a Milano, alla base del crollo di alberi in tutta la città in occasione della tempesta di vento e ghiaccio di inizio settimana (Palazzo Marino ha trovato l’assassino perfetto nell’ormai onnipresente cambiamento climatico, anche se gli indizi di colpevolezza portano dritti a una manutenzione parecchio scarsa), hanno messo la sordina a un’altra spina dolente nel fianco green di Sala. Quella relativa al progetto ForestaMi. Si tratta di un piano sbalorditivo: da qui al 2030 saranno piantati 3 milioni di nuovi alberi a Milano e nei comuni della Città metropolitana. Nato da una ricerca del Politecnico di Milano, sostenuto (tra gli altri) da Regione, Parco Nord, Fondazione Falck e Fs Sistemi urbani, ForestaMi vanta nientepopodimeno che Stefano Boeri nel suo comitato scientifico. Che sarà mai fare un bosco in orizzontale per lui è che è riuscito a costruirne uno in verticale? Non è proprio così. Perché a rumoreggiare contro il progetto sono cittadini e movimenti ambientalisti che hanno sostenuto la candidatura di Sala in passato. E che adesso si trovano a guardare sbalorditi una grande operazione, certo, ma di facciata. Perché piantare gli arbusti è facile, mantenerli e farli crescere è difficile. E a Milano neanche ci provano. Dai dati ufficiali presentati alla fine della passata stagione agronomica, nel 2022 ben 16.000 alberi, tra adulti e neo piantati, sono morti. La colpa è stata data all’ondata di caldo della scorsa estate che aveva provocato settimane di intensa siccità. «Quando c’è moria di alberi, noi ripiantamo», aveva pomposamente annunciato mesi fa Sala. Ma per cercare la vera causa dell’ecatombe green a Milano, forse il sindaco dovrebbe guardarsi allo specchio. O, meglio, dovrebbe guardare in direzione dei propri uffici comunali. Perché a detta di residenti e attivisti, a mancare non è stata (solo) l’acqua piovana ma (soprattutto) la manutenzione e la cura. Tanto che, a ForestaMi, fanno da contraltare due movimenti nati spontaneamente dall’iniziativa dei milanesi: BagnaMi, che vede i cittadini impegnati a dare l’acqua di propria iniziativa alle povere piante abbandonate al proprio destino, e ForestaMi e poi DimenticaMi, che mette in fila e documenta il lato oscuro di ForestaMi. Sui social questi guardiani degli alberi sono molto attivi, producono dossier anche fotografici con le criticità del progetto da 3 milioni di alberi, raccontando «una storia diversa rispetto alla narrazione ufficiale dell’infallibile piano ForestaMi, di cui siamo bombardati attraverso i media». E nei cahier de doleances green c’è di tutto: impianti di irrigazione che non funzionano, autobotti insufficienti o «fantasma», annunci di bagnature anticipate definite «bluff», visto che dovrebbero essere garantite tutto l’anno e non solo nei mesi più caldi. «Le piante sono morte per incapacità, non per la siccità», ha tuonato a inizio anno lo storico consigliere ambientalista Carlo Monguzzi, «Milano è seduta su una falda che straborda, mungiamo ogni anno 60 milioni di litri dalla falda per non allagare la metropolitana. È un controsenso». C’è talmente così tanta sciatteria nel progetto ForestaMi, definito una delle più grandi operazioni di greenwashing (ovvero, ecologismo di facciata) attivate in Italia che, per il secondo anno consecutivo, a maggio, in zona Bovisasca, un cittadino ha scoperto decine di alberi pronti per essere piantati ma abbandonati in un campo. Morti, stecchiti: un vero e proprio cimitero. Nel 2022 una scoperta simile era stata fatta in zona San Siro. Chissà che ne pensano i munifici sponsor di questo progetto. Chissà che ne pensano i 70.000 milanesi che l’assessore Pierfrancesco Maran ringraziava per aver sostenuto, lo scorso anno, con una donazione, ForestaMi. I «pacchetti» contributo partono da 30 euro e arrivano fino ai 100. Certo, c’è anche l’importo libero. Parte di quei soldi è stata gettata al vento.
L’argento è ai massimi storici a oltre 60 dollari l’oncia superando i fasti del 1979 o del 2011. Oltre 45 anni fa l’inflazione fuori controllo, la crisi degli ostaggi in Iran e l’invasione sovietica dell’Afghanistan spinsero il prezzo dell’oro a triplicare, mentre l’argento salì addirittura di sette volte. Dopo quel picco, entrambi i metalli entrarono in una lunga fase di declino, interrotta solo dalla sequenza di crisi finanziarie iniziata con il crollo del mercato immobiliare statunitense nel 2007, proseguita con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e culminata nella crisi del debito europeo tra il 2010 e il 2012. In quel periodo l’oro raddoppiò, mentre l’argento quasi quadruplicò.
A differenza dei grandi rally del passato, l’ultimo anno non è stato caratterizzato da eventi catastrofici paragonabili. E allora perché un rally dei «preziosi»? Parte della spiegazione risiede nelle preoccupazioni degli investitori per una possibile pressione politica sulla Federal Reserve, che potrebbe tradursi in inflazione più elevata con tassi più bassi, uno scenario tradizionalmente favorevole ai metalli preziosi. Un’altra parte deriva dagli acquisti di oro da parte delle banche centrali, impegnate a ridurre la dipendenza dal dollaro. Oggi il metallo giallo rappresenta circa il 20% delle riserve ufficiali globali, superando l’euro (16%). Il congelamento delle riserve russe dopo l’invasione dell’Ucraina ha incrinato la fiducia nel dollaro come valuta di riserva, rafforzando l’attrattiva dell’oro e, per effetto di contagio, anche dell’argento.
Lo sblocco di 185 miliardi di euro di asset russi congelati sta già producendo effetti profondi sull’architettura finanziaria globale e sulla gestione delle riserve da parte delle banche centrali. Secondo Jefferies, il dibattito sulla possibile monetizzazione di queste riserve rappresenta un precedente di portata storica e costituisce uno dei principali motori dell’accelerazione degli acquisti di oro da parte delle banche centrali, iniziata nel 2022.
Il problema è innanzitutto di fiducia. Per i mercati globali il segnale è già stato colto. Il congelamento delle riserve russe nel 2022 è stato il “trigger” - lo stimolo - che ha spinto molti Paesi, soprattutto al di fuori del G7, a interrogarsi sulla sicurezza delle proprie attività denominate in valute occidentali. La risposta è stata un accumulo senza precedenti di oro. I dati del World Gold Council mostrano che tra il terzo trimestre del 2022 e il secondo del 2025 le banche centrali hanno acquistato 3.394 tonnellate di metallo prezioso, con tre anni consecutivi oltre la soglia delle 1.000 tonnellate.
Questo movimento strutturale si è intrecciato con altri fattori macroeconomici che hanno sostenuto una spettacolare corsa dell’oro. Tra il 2024 e il 2025 i prezzi sono raddoppiati, spinti dagli acquisti ufficiali, dai tagli dei tassi della Federal Reserve, da un dollaro più debole, dai dubbi sull’indipendenza della banca centrale statunitense e dal ritorno massiccio degli investitori negli Etf.
Altro fattore scatenante di oro e argento è il debito. Quello globale sfiora ormai la soglia dei 346mila miliardi di dollari, segnala l’Institute of International Finance (IIF), che nel suo ultimo rapporto evidenzia come, a fine settembre, l’indebitamento complessivo abbia raggiunto i 345,7 trilioni, pari a circa il 310% del Pil mondiale. Secondo l’IIF, «la maggior parte dell’aumento complessivo è arrivato dai mercati sviluppati, dove l’ammontare del debito ha segnato un un rapido aumento quest’anno».
Più debito e più sfiducia sulle regole finanziarie portano alla fuga però dai titoli di Stato, come emerge dai rendimenti. Quelli dei bond pubblici globali a 10 anni e oltre sono balzati al 3,9%, il livello più alto dal 2009. I rendimenti obbligazionari mondiali (gli interessi che si pagano) sono ora 5,6 volte superiori al minimo registrato durante la pandemia del 2020. Trainano il rialzo le principali economie, tra cui Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Canada, Germania e Australia. Per dire, il rendimento dei titoli di Stato tedeschi a 30 anni è salito al 3,46%, il livello più alto da luglio 2011. Quando l’argento toccò un picco.
L'era del denaro a basso costo per i governi sembra finita. Vediamo come finisce questa corsa del «silver» e del «gold».
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Ansa
Secondo quanto riferito, i militari della Bundeswehr saranno impiegati principalmente in attività di ingegneria militare. Un portavoce del dicastero ha spiegato che il loro compito consisterà in «attività di ingegneria», che potrebbero includere «la costruzione di fortificazioni, lo scavo di trincee, la posa di filo spinato o la costruzione di barriere anticarro». Sempre secondo il ministero, il dispiegamento non richiederà però un mandato parlamentare, poiché «non vi è alcun pericolo immediato per i soldati legato a un conflitto militare».
Ma se il pericolo non c’è allora perché inviarli oltretutto senza passare dal Parlamento? Il rafforzamento delle difese lungo il confine orientale dell’Alleanza si inserisce in un contesto segnato dal protrarsi della guerra in Ucraina e dall’intensificarsi delle operazioni militari russe sul terreno. Secondo un rapporto analitico dell’intelligence britannica datato 13 dicembre, rilanciato da Rbc, le forze russe stanno tentando di avanzare nell’area di Siversk, nella regione di Donetsk, approfittando delle difficili condizioni meteorologiche. Londra smentisce però le dichiarazioni di Mosca sul controllo totale della città. Gli analisti ritengono che reparti russi siano riusciti a infiltrarsi nella zona centrale sfruttando la nebbia, mentre le Forze di difesa ucraine continuano a presidiare i quartieri occidentali, a conferma che i combattimenti sono ancora in corso anche se la città risulta ormai in gran parte perduta e per tentare di riconquistarla sarebbero necessarie nuove riserve. L’intelligence britannica sottolinea inoltre come Siversk rappresenti da tempo un obiettivo strategico per Mosca. Il controllo della città, spiegano gli analisti, consentirebbe alle forze russe di aprire un corridoio verso centri urbani più grandi e decisivi del Donetsk, come Sloviansk e Kramatorsk, che restano sotto il controllo ucraino. Il rapporto segnala inoltre una capacità limitata delle truppe ucraine di condurre operazioni di raid localizzate nella parte settentrionale di Pokrovsk e sottolinea come le forze russe continuino a subire perdite consistenti lungo l’intera linea del fronte. Secondo le stime di Londra, nel 2025 il numero complessivo di morti e feriti tra le fila russe potrebbe arrivare a circa 395.000 unità.
Sul piano umanitario ed energetico, l’Ucraina sta affrontando le conseguenze degli ultimi attacchi russi contro le infrastrutture elettriche. Dopo i bombardamenti notturni, oltre un milione di utenze sono rimaste senza corrente. Le squadre di emergenza hanno però già avviato gli interventi di ripristino. «Attualmente oltre un milione di utenze sono senza elettricità. Ma le squadre di riparazione, sia di UkrEnergo che degli operatori del sistema di distribuzione, hanno già avviato i lavori di riparazione per garantire la fornitura ai consumatori. Spero che oggi riusciremo a riparare la maggior parte di ciò che è stato interrotto durante la notte», ha dichiarato Vitaliy Zaychenko, presidente del cda dell’operatore pubblico della rete elettrica, citato dall’agenzia statale Ukrinform. Zaychenko ha aggiunto che le situazioni più critiche si registrano nelle regioni di Odessa, Mykolaiv e Kherson, confermando come il conflitto continui a colpire in modo diretto la popolazione civile e le infrastrutture essenziali del Paese.
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Donald Trump (Ansa)
Insomma, se di nuovo attaccato, in soccorso del Paese di Volodymyr Zelensky scenderebbero gli Stati membri dell’Alleanza. Probabilmente - come nel caso dell’organizzazione nordatlantica - non ci sarebbero automatismi e sarebbero necessarie prima delle consultazioni politiche. La Russia, però, sarebbe avvisata. E la novità è che anche gli Stati Uniti, benché recalcitranti a impegnarsi per Kiev e per il Vecchio continente, hanno accolto il lodo Meloni.
Axios, citando fonti dell’amministrazione americana, ha scritto che la Casa Bianca sarebbe pronta a dare il suo assenso, sottoponendo comunque l’intesa al voto del Congresso. «Vogliamo offrire agli ucraini», ha dichiarato un funzionario Usa, «una garanzia di sicurezza che non sia un assegno in bianco da un lato, ma che sia sufficientemente solida dall’altro».
La definizione dello scenario postbellico sarebbe uno dei tre accordi da firmare separatamente: uno per la pace, uno per la sicurezza, uno per la ricostruzione. L’esponente dell’esecutivo statunitense considera positivo che, per la prima volta, la nazione aggredita abbia mostrato una visione per il dopoguerra. A dispetto dell’apparente stallo dei negoziati, peraltro, il collaboratore di Donald Trump ha riferito ad Axios che, negli Usa, l’apertura di Zelensky almeno a un referendum sullo status dei territori occupati viene considerata «un progresso». All’America sarebbe stato giurato che gli europei sosterrebbero il capo della resistenza, se decidesse di mandare in porto la consultazione.
Steve Witkoff e Jared Kushner si sarebbero confrontati su piano per creare una zona demilitarizzata a ridosso del fronte, insieme ai consiglieri per la sicurezza di Ucraina, Germania, Francia e Regno Unito. I passi avanti sarebbero stati tali da convincere Trump a spedire il genero e l’inviato speciale in Europa. Entrambi, in vista del vertice di domani, sono attesi oggi a Berlino per dei colloqui con rappresentanti ucraini e tedeschi. Domani, invece, i delegati di The Donald vedranno il cancelliere, Friedrich Merz, Macron e il premier britannico, Keir Starmer. Al summit parteciperanno anche altri leader Ue e Nato, tra cui Giorgia Meloni. Reduce, a questo punto, da un successo politico e diplomatico.
Un’accelerazione delle trattative potrebbe aiutarla a trarsi d’impaccio pure dalle difficoltà interne: i malumori della Lega per il decreto armi e l’intervento a gamba tesa del Colle sulla necessità di sostenere Kiev. La reprimenda di Sergio Mattarella poteva certo essere diretta contro il Carroccio, che infatti ieri ha risposto, con toni insolitamente duri, tramite Paolo Borchia: al capo dello Stato, ha lamentato l’eurodeputato, «piace far politica». A giudicare dai commenti di Matteo Salvini e Claudio Borghi, però, sembra improbabile una crisi della maggioranza. Ma la coincidenza davvero interessante è che l’inquilino del Quirinale ha pronunciato il suo discorso appena dopo il faccia a faccia tra Meloni e Zelensky, cui il nostro premier avrebbe fatto presente l’inevitabilità di «concessioni territoriali dolorose». Ieri è toccato ad Antonio Tajani smentire le presunte pressioni italiane affinché l’Ucraina accetti le condizioni del piano di Trump. «Sui territori», ha precisato il ministro degli Esteri, seguito a ruota da Guido Crosetto, «la decisione è solo degli ucraini». Fatto sta che, pure sull’utilizzo degli asset russi - una partita delicatissima, nella quale nemmeno la posizione della Germania è priva di ambiguità - Roma sta cercando di disinnescare le mine piazzate dalla Commissione europea, che sarebbero di intralcio alla pace.
Chi, intanto, si sta riaffacciando nella veste di mediatore è Recep Tayyip Erdogan. Teme che il Mar Nero, nel quale Ankara mantiene interessi vitali, diventi «un campo di battaglia», come ha detto ieri il Sultano. Non a caso, Kiev ha accusato Mosca di aver colpito un cargo turco che trasportava olio di girasole. Erdogan ha garantito che «la pace non è lontana» ed espresso apprezzamenti per l’iniziativa di The Donald. «Discuteremo il piano anche con il presidente degli Stati Uniti Trump, se possibile», ha annunciato. Con Vladimir Putin, ha aggiunto il presidente, «abbiamo parlato degli sforzi della Turchia per raggiungere la pace. Entrambi riteniamo positivo il tentativo di impostare un dialogo per porre fine al conflitto. Trump si è attivato e noi siamo al suo fianco, i nostri contatti con gli Usa sono continui».
Ieri, sono stati trasferiti in Ucraina quasi tutti i prigionieri liberati dalla Bielorussia in cambio dello stop alle sanzioni statunitensi, compresa l’oppositrice al regime Maria Kolesnikova. Pure questo è un piccolo segnale. Se ne attende qualcuno dall’Europa. Prima che la guerra diventi la sua tragica profezia che si autoavvera.
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