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2023-08-18
Benzina su per 17 giorni consecutivi. Nuovo record estivo a 2,019 euro
Pare non esserci più fine alla corsa al rialzo dei prezzi dei carburanti. Secondo i dati diffusi dall’aggiornamento quotidiano del ministero delle Imprese e del made in Italy, la giornata di ieri ha fatto registrare il diciassettesimo aumento consecutivo nella rete autostradale. Il prezzo medio della benzina, per il self service, è salito infatti a 2,019 euro al litro, mentre quello del gasolio è aumentato fino a 1,928. Stabili, seppure alti, i prezzi del Gpl e del metano per il servito, rispettivamente a 0,842 e 1,528 euro al litro. Una situazione ai limiti del sostenibile, per la quale la Guardia di finanza ha intensificato i controlli per fare in modo che le norme sulla trasparenza dei prezzi vengano rispettate. Sempre secondo i dati diffusi dal Mimit, nei primi 15 giorni di agosto sono stati eseguiti 1.230 interventi, che hanno portato a scoprire 789 violazioni, di cui 363 per mancata esposizione dei prezzi e 426 per inosservanza degli obblighi di comunicazione all’osservatorio dei prezzi sul carburante. Il problema, però, è che questa pur meritoria attività sia un po’ come fermare il vento con le mani, se è vero che nulla è riuscito ad arrestare la corsa al rialzo.
Tanto che, prevedibilmente, la questione è divenuta da economica a politica, dopo i ripetuti interventi del ministro Adolfo Urso, cui sono seguite reazioni polemiche dell’opposizione e di sostegno della maggioranza. Mercoledì Urso era intervenuto una prima volta con una nota siglata dal suo ministero, nel tentativo di spiegare che «il prezzo industriale della benzina, depurato dalle accise, è inferiore rispetto ad altri Paesi europei, come Francia, Spagna e Germania» e che «è falso quanto affermano alcuni esponenti politici che il prezzo di benzina e gasolio sia fuori controllo, anzi vero il contrario: l’Italia ha fatto meglio di altri Paesi europei». Parole che hanno innescato l’immediata reazione polemica di tutti i partiti dell’opposizione, i quali hanno battuto proprio sul tasto delle accise, incalzando l’esecutivo di ripristinare il taglio delle stesse, deciso dal governo Draghi, confermato dal governo Meloni per poi essere sospeso nell’ultima legge di Bilancio per dare priorità ad altri interventi. E ieri Urso è intervenuto una seconda volta, sempre per difendere il suo operato e quello dell’intero esecutivo e rivendicare l’efficacia delle norme sulla trasparenza e dei controlli. «Ci hanno mandato la foto di un distributore», ha detto, «che vendeva la benzina a 2,7 euro al litro e noi abbiamo mandato la Guardia di finanza. Questo dimostra che il cartello con il prezzo medio dei carburanti che i distributori devono esporre dallo scorso primo agosto funziona. I prezzi», ha proseguito, «sono saliti meno di quanto avvenuto alla fonte. E se si tolgono le accise», ha ribadito, «si vede che il prezzo industriale dei carburanti in Italia è inferiore a quello di Francia, Germania e Spagna».
Prevedibilmente, anche il secondo intervento del ministro ha rinfocolato la polemica politica agostana che si sta concentrando, per la verità, sul caro prezzi in generale, ivi compresi settori come la ristorazione, l’alberghiero o il balneare, oltre ovviamente ai voli. Il responsabile economia del Pd, Antonio Misiani, chiede al governo «atti concreti», alludendo all’implementazione di una serie di norme messe in cantiere negli scorsi mesi, come «l’app pubblica che era prevista dal decreto Trasparenza per informare gli italiani sull’andamento dei prezzi» o «la norma sull’accisa mobile prevista che dovrebbe scattare in caso di aumenti sopra determinate soglie per contenere i prezzi dei carburanti». Per i pentastellati ha parlato il senatore Stefano Patuanelli, che in passato si è seduto sulla stessa poltrona di Urso e rinfaccia all’esecutivo di aver «perfino eliminato gli sconti sulle accise decisi dai governi che l’hanno preceduto», mentre dal fronte Terzo polo Matteo Richetti chiede al premier Giorgia Meloni di «intervenire con un provvedimento urgente».
Nel perimetro della maggioranza si fa quadrato attorno a Urso: il presidente della commissione Lavoro del Senato, Francesco Zaffini (di Fdi), ha controbattuto all’opposizione che «le accise sulla benzina servono per tagliare il cuneo fiscale a favore dei salari più bassi e a sostenere le famiglie bisognose», e il leader di Noi moderati Maurizio Lupi sprona l’esecutivo a proseguire sulla strada del «sostegno a famiglie e imprese». Nel dibattito si sono inserite anche le associazioni dei consumatori: per Federcontribuenti «il prezzo della benzina potrebbe essere ridotto di 20 centesimi al litro senza nessuna conseguenza negativa sulle casse dello Stato», aggiungendo che serve «una risposta seria e concreta mettendo per fermare questo tsunami», mentre Assoutenti fa notare che «l’aumento degli ultimi giorni si verifica nonostante il calo del petrolio, le cui quotazioni sono scese sia per il Brent che per il Wti».
Firme taroccate sul salario minimo
Quando si parla di «grande partecipazione» o di «successo popolare», bisogna sempre essere cauti, perché dietro l’angolo della retorica può nascondersi il più classico dei boomerang. Così pare essere per la sinistra con la tanto sbandierata petizione per l’introduzione del salario minimo nel nostro Paese, che fa da sponda alla proposta di legge presentata qualche settimana fa in Parlamento da tutti i partiti dell’opposizione, eccezion fatta per Italia viva. Ebbene, come ha fatto notare il quotidiano Libero, la procedura per apporre una firma online alla petizione stessa è abbastanza «allegra», poiché sostanzialmente priva di alcun controllo degno di questo nome sull’identità dei firmatari.
La cosa sarebbe talmente all’acqua di rose che non solo si può mettere un nome falso, ma addirittura un nome di fantasia, come per esempio quello di un supereroe dei fumetti o di un personaggio storico. E dallo stesso indirizzo mail la petizione può essere sottoscritta quante volte si vuole. Così è consentito a ciascuno di votare più di una volta, incrementando in maniera esponenziale i numeri della petizione stessa.
Negli ultimi giorni, molti esponenti dei partiti promotori della raccolta di firme hanno diffuso più di un comunicato nel quale si aggiornava il conto trionfale delle adesioni: 100.000 dopo il primo giorno, più di 200.000 ieri. Il più attivo al pallottoliere è senz’altro il duumviro dell’Alleanza Verdi-Sinistra Angelo Bonelli, che dopo aver suonato la grancassa a quota 100.000 l’ha suonata una seconda volta: «Siamo tra i pochi Paesi in Europa che non applicano il salario minimo», ha detto, «per questo continua la nostra mobilitazione con più di 240.000 firme raccolte dalle opposizioni». Intuendo forse la mala parata sulla raccolta online, i grillini sudtirolesi hanno voluto mettere in rilievo il fatto che loro hanno approntato dei banchetti, dove l’inganno è sempre possibile ma in presenza appare molto più arduo.
E di inganno parlano a gran voce i parlamentari della maggioranza, soprattutto quelli di Fdi, accusati dall’opposizione di voler affossare la loro proposta di legge: dal capogruppo alla Camera Tommaso Foti arriva un’accusa sull’aspetto politico: per Foti «nella proposta dell’opposizione c’è la truffa: si firma per il salario minimo “subito” ma c’è scritto che va in vigore il 15 novembre del 2024. E non è finanziato, perché sono previsti benefici a favore delle imprese ma si demanda alla legge di bilancio di reperirne i fondi. Tutto subito», aggiunge Foti, «è un retaggio del ‘68 dei comunisti mal maturi. Noi», prosegue, «agiremo più in fretta dell’opposizione, vogliamo una soluzione che preveda il salario minimo attraverso l’estensione dei contratti in essere anche a quelli pirata e sui salari troppo bassi vanno rinnovati i contratti collettivi alla scadenza». Il capogruppo in commissione Lavoro alla Camera, Marta Schifone, di Fdi, stuzzica l’opposizione sulla vicenda delle firme farlocche, parlando di uno «psicodramma»: «Il tanto sbandierato successo della petizione », afferma, «è una fake news. Chiedono agli italiani in buona fede di firmare per il salario minimo, ma il sistema di raccolta delle firme non verifica nulla; tanto che tra i firmatari risultano anche Stalin, Sbirulino e l’Ape Maia. Per non parlare della proposta di legge che abbiamo smontato pezzo per pezzo: dall’esclusione dall’ambito di applicazione del lavoro domestico, alla improbabile richiesta di coperture al governo per finanziare i benefici da accordare alle imprese; fino alla più grave “dimenticanza” che si scrive salario minimo “subito” e si legge 15 novembre 2024».
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Aumenta anche il diesel. Adolfo Urso difende il decreto Trasparenza mentre Pd e 5 stelle attaccano il governo chiedendo sconti sulle accise. Fdi fa quadrato intorno al ministro: «Servono a tagliare il cuneo fiscale».Firme taroccate sul salario minimo: l’opposizione si vanta di aver superato le 240.000 adesioni alla propria petizione. Ma il sistema non blocca partecipazioni multiple con la stessa mail e identità false.Lo speciale contiene due articoli.Pare non esserci più fine alla corsa al rialzo dei prezzi dei carburanti. Secondo i dati diffusi dall’aggiornamento quotidiano del ministero delle Imprese e del made in Italy, la giornata di ieri ha fatto registrare il diciassettesimo aumento consecutivo nella rete autostradale. Il prezzo medio della benzina, per il self service, è salito infatti a 2,019 euro al litro, mentre quello del gasolio è aumentato fino a 1,928. Stabili, seppure alti, i prezzi del Gpl e del metano per il servito, rispettivamente a 0,842 e 1,528 euro al litro. Una situazione ai limiti del sostenibile, per la quale la Guardia di finanza ha intensificato i controlli per fare in modo che le norme sulla trasparenza dei prezzi vengano rispettate. Sempre secondo i dati diffusi dal Mimit, nei primi 15 giorni di agosto sono stati eseguiti 1.230 interventi, che hanno portato a scoprire 789 violazioni, di cui 363 per mancata esposizione dei prezzi e 426 per inosservanza degli obblighi di comunicazione all’osservatorio dei prezzi sul carburante. Il problema, però, è che questa pur meritoria attività sia un po’ come fermare il vento con le mani, se è vero che nulla è riuscito ad arrestare la corsa al rialzo.Tanto che, prevedibilmente, la questione è divenuta da economica a politica, dopo i ripetuti interventi del ministro Adolfo Urso, cui sono seguite reazioni polemiche dell’opposizione e di sostegno della maggioranza. Mercoledì Urso era intervenuto una prima volta con una nota siglata dal suo ministero, nel tentativo di spiegare che «il prezzo industriale della benzina, depurato dalle accise, è inferiore rispetto ad altri Paesi europei, come Francia, Spagna e Germania» e che «è falso quanto affermano alcuni esponenti politici che il prezzo di benzina e gasolio sia fuori controllo, anzi vero il contrario: l’Italia ha fatto meglio di altri Paesi europei». Parole che hanno innescato l’immediata reazione polemica di tutti i partiti dell’opposizione, i quali hanno battuto proprio sul tasto delle accise, incalzando l’esecutivo di ripristinare il taglio delle stesse, deciso dal governo Draghi, confermato dal governo Meloni per poi essere sospeso nell’ultima legge di Bilancio per dare priorità ad altri interventi. E ieri Urso è intervenuto una seconda volta, sempre per difendere il suo operato e quello dell’intero esecutivo e rivendicare l’efficacia delle norme sulla trasparenza e dei controlli. «Ci hanno mandato la foto di un distributore», ha detto, «che vendeva la benzina a 2,7 euro al litro e noi abbiamo mandato la Guardia di finanza. Questo dimostra che il cartello con il prezzo medio dei carburanti che i distributori devono esporre dallo scorso primo agosto funziona. I prezzi», ha proseguito, «sono saliti meno di quanto avvenuto alla fonte. E se si tolgono le accise», ha ribadito, «si vede che il prezzo industriale dei carburanti in Italia è inferiore a quello di Francia, Germania e Spagna».Prevedibilmente, anche il secondo intervento del ministro ha rinfocolato la polemica politica agostana che si sta concentrando, per la verità, sul caro prezzi in generale, ivi compresi settori come la ristorazione, l’alberghiero o il balneare, oltre ovviamente ai voli. Il responsabile economia del Pd, Antonio Misiani, chiede al governo «atti concreti», alludendo all’implementazione di una serie di norme messe in cantiere negli scorsi mesi, come «l’app pubblica che era prevista dal decreto Trasparenza per informare gli italiani sull’andamento dei prezzi» o «la norma sull’accisa mobile prevista che dovrebbe scattare in caso di aumenti sopra determinate soglie per contenere i prezzi dei carburanti». Per i pentastellati ha parlato il senatore Stefano Patuanelli, che in passato si è seduto sulla stessa poltrona di Urso e rinfaccia all’esecutivo di aver «perfino eliminato gli sconti sulle accise decisi dai governi che l’hanno preceduto», mentre dal fronte Terzo polo Matteo Richetti chiede al premier Giorgia Meloni di «intervenire con un provvedimento urgente».Nel perimetro della maggioranza si fa quadrato attorno a Urso: il presidente della commissione Lavoro del Senato, Francesco Zaffini (di Fdi), ha controbattuto all’opposizione che «le accise sulla benzina servono per tagliare il cuneo fiscale a favore dei salari più bassi e a sostenere le famiglie bisognose», e il leader di Noi moderati Maurizio Lupi sprona l’esecutivo a proseguire sulla strada del «sostegno a famiglie e imprese». Nel dibattito si sono inserite anche le associazioni dei consumatori: per Federcontribuenti «il prezzo della benzina potrebbe essere ridotto di 20 centesimi al litro senza nessuna conseguenza negativa sulle casse dello Stato», aggiungendo che serve «una risposta seria e concreta mettendo per fermare questo tsunami», mentre Assoutenti fa notare che «l’aumento degli ultimi giorni si verifica nonostante il calo del petrolio, le cui quotazioni sono scese sia per il Brent che per il Wti».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/benzina-su-per-17-giorni-2664045402.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="firme-taroccate-sul-salario-minimo" data-post-id="2664045402" data-published-at="1692360188" data-use-pagination="False"> Firme taroccate sul salario minimo Quando si parla di «grande partecipazione» o di «successo popolare», bisogna sempre essere cauti, perché dietro l’angolo della retorica può nascondersi il più classico dei boomerang. Così pare essere per la sinistra con la tanto sbandierata petizione per l’introduzione del salario minimo nel nostro Paese, che fa da sponda alla proposta di legge presentata qualche settimana fa in Parlamento da tutti i partiti dell’opposizione, eccezion fatta per Italia viva. Ebbene, come ha fatto notare il quotidiano Libero, la procedura per apporre una firma online alla petizione stessa è abbastanza «allegra», poiché sostanzialmente priva di alcun controllo degno di questo nome sull’identità dei firmatari. La cosa sarebbe talmente all’acqua di rose che non solo si può mettere un nome falso, ma addirittura un nome di fantasia, come per esempio quello di un supereroe dei fumetti o di un personaggio storico. E dallo stesso indirizzo mail la petizione può essere sottoscritta quante volte si vuole. Così è consentito a ciascuno di votare più di una volta, incrementando in maniera esponenziale i numeri della petizione stessa. Negli ultimi giorni, molti esponenti dei partiti promotori della raccolta di firme hanno diffuso più di un comunicato nel quale si aggiornava il conto trionfale delle adesioni: 100.000 dopo il primo giorno, più di 200.000 ieri. Il più attivo al pallottoliere è senz’altro il duumviro dell’Alleanza Verdi-Sinistra Angelo Bonelli, che dopo aver suonato la grancassa a quota 100.000 l’ha suonata una seconda volta: «Siamo tra i pochi Paesi in Europa che non applicano il salario minimo», ha detto, «per questo continua la nostra mobilitazione con più di 240.000 firme raccolte dalle opposizioni». Intuendo forse la mala parata sulla raccolta online, i grillini sudtirolesi hanno voluto mettere in rilievo il fatto che loro hanno approntato dei banchetti, dove l’inganno è sempre possibile ma in presenza appare molto più arduo. E di inganno parlano a gran voce i parlamentari della maggioranza, soprattutto quelli di Fdi, accusati dall’opposizione di voler affossare la loro proposta di legge: dal capogruppo alla Camera Tommaso Foti arriva un’accusa sull’aspetto politico: per Foti «nella proposta dell’opposizione c’è la truffa: si firma per il salario minimo “subito” ma c’è scritto che va in vigore il 15 novembre del 2024. E non è finanziato, perché sono previsti benefici a favore delle imprese ma si demanda alla legge di bilancio di reperirne i fondi. Tutto subito», aggiunge Foti, «è un retaggio del ‘68 dei comunisti mal maturi. Noi», prosegue, «agiremo più in fretta dell’opposizione, vogliamo una soluzione che preveda il salario minimo attraverso l’estensione dei contratti in essere anche a quelli pirata e sui salari troppo bassi vanno rinnovati i contratti collettivi alla scadenza». Il capogruppo in commissione Lavoro alla Camera, Marta Schifone, di Fdi, stuzzica l’opposizione sulla vicenda delle firme farlocche, parlando di uno «psicodramma»: «Il tanto sbandierato successo della petizione », afferma, «è una fake news. Chiedono agli italiani in buona fede di firmare per il salario minimo, ma il sistema di raccolta delle firme non verifica nulla; tanto che tra i firmatari risultano anche Stalin, Sbirulino e l’Ape Maia. Per non parlare della proposta di legge che abbiamo smontato pezzo per pezzo: dall’esclusione dall’ambito di applicazione del lavoro domestico, alla improbabile richiesta di coperture al governo per finanziare i benefici da accordare alle imprese; fino alla più grave “dimenticanza” che si scrive salario minimo “subito” e si legge 15 novembre 2024».
Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovich c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.