
Dall’alto dell’Eurotower dalla quale governa la Bce, Chistine Lagarde mercoledì pomeriggio, poche ore prima che Donald Trump annunciasse i dazi al globo e all’Europa, diffonde una nota di poche parole mirata a smontare la struttura dell’Ue così come fino a oggi l’abbiamo conosciuta. «L’Europa», ha fatto sapere, «non può permettersi di essere divisa di fronte alle maggiori economie mondiali» che usano leve come i dazi per ottenere «concessioni su altre finalità strategiche» e dovrebbe, ha aggiunto, «superare i veti nazionali con una riforma strutturale che aumenti la capacità di votare a maggioranza qualificata». Via il veto e via l’unanimità, è il messaggio che porta la banchiera francese a esplorare un campo che non solo non le compete, ma che trasforma la Bce in un organo politico. «Per difendere i nostri interessi dobbiamo cambiare strutturalmente il modo in cui prendiamo decisioni», superando «la tradizione storica in cui il veto di un singolo Paese può mandare all’aria l’interesse collettivo degli altri 26». Ovviamente la Lagarde che dovrebbe preoccuparsi dell’inflazione e della gestione dell’euro, non è certo impazzita improvvisamente né ha deciso di candidarsi a Bruxelles. Le sue frasi fanno parte di un movimento coordinato che da tempo spinge verso la riforma dei trattati e punta ad accantonare l’unanimità. Non a caso, su più di un giornale italiano ieri mattina il messaggio è stato solo ripreso, ma proprio interiorizzato. L’input - e il diktat - è che l’Europa non sarà in grado di affrontare la tempesta dei dazi senza un timone comune. Una sola decisione dovrebbe essere valida e imposta a 27 economie tra loro - vale la pena ricordarlo e ribadirlo - molto diverse. Eppure, a essere sventolata è la solita bandiera dell’emergenza. Sull’onda del sentimento si cerca di mettere a terra un piano che certo non nasce per rispondere ai dazi. Da tempo politici e opinionisti spiegano che l’Europa non funziona perché «ne serve di più».
«Per governare i flussi migratori servono in Europa criteri di solidarietà tra i Paesi membri e una politica lungimirante», spiegava il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso sul futuro della Ue a Maastricht. Era il novembre 2022. L’emergenza era quella dei flussi migratori e su quell’onda il messaggio era netto. «Il voto all’unanimità è una formula ampiamente superata perché si trasforma in diritto di veto che paralizza l’Unione. Vi è una condizione sollecitata dal succedersi di crisi e l’Unione ha bisogno di rimuovere questo limite e completare il suo percorso organizzativo interno».
Trascorre un annetto. Nel frattempo si consolida la guerra in Ucraina e, alla fine del novembre 2023, Mattarella incontra il presidente della Repubblica ceca, Petr Pavel. «L’Europa è portatrice di pace, di civiltà, di promozione dei diritti, di apertura dei mercati, di cultura ma, di fronte alle epocali sfide mondiali caratterizzate dalla presenza di grandi soggetti e grandi aggregazioni, ha bisogno di essere più coesa e efficiente», ma soprattutto, concluse il presidente Mattarella, «occorre superare, almeno per alcuni temi, il voto all’unanimità e passare al voto a maggioranza dei membri», specialmente «in vista di nuovi allargamenti dell’Unione».
L’ingresso dell’Ucraina era il contendere. Poi, come sempre, l’agenda dell’Ue passa da una emergenza all’altra e siamo arrivati ai dazi. L’altro ieri il Quirinale ha definito i dazi inaccettabili (certamente sono un problema) e ha detto che l’Ue deve muoversi con un sol passo. Diverse le dichiarazioni rese, invece, ieri sera al Tg1 da Giorgia Meloni, soprattutto questa: «Condivideremo proposte con partner Ue ma le scelte possono essere diverse». Insomma, altro che abolizione dell’unanimità.
Eppure il pressing c’è da scommettere che proseguirà con il chiaro intento di rendere i governi nazionali poco più che amministratori di condominio: lasciare agli esecutivi eletti la possibilità di gestire una minima parte del budget e tutto il resto dei fondi è incanalato da Bruxelles. Immaginiamo cosa possa succedere senza unanimità e veto. Cadrebbe, una volta per tutte, la sovranità dei singoli Paesi. Su tematiche strategiche e caratterizzanti. Accordarsi con gli Usa o opporsi. Oppure allearsi con la Cina è una di quelle scelte che compete alla politica e ai partiti perché è il frutto di una mediazione democratica che trova la sua sintesi nelle elezioni. Decidere il futuro del welfare, oppure decidere se schierare un esercito non sono aspetti burocratici. Sono spinte sostanziali per la democrazia e la struttura sociale che, ovviamente, comprende la strutture economica di ciascun Pil. Nel concreto, se l’Ue decidesse di ribattere ai dazi alzando ulteriori barriere d’ingresso alle aziende a stelle e strisce e l’Italia fosse contraria, Roma sarebbe costretta a ratificare scelte prese più a Nord limitandosi a fare il passacarte. Rischierebbe di penalizzare il nostro Pil per favorire quello dei tedeschi. Ricordiamo che quando c’era la crisi dei Piigs, i maiali del Mediterraneo, i governi filo tedeschi, oltre che Berlino, rifiutarono di fare debito comune e spinsero fino a penalizzare le nostre banche. All’epoca, guarda caso, non si parlava di abolire l’unanimità. Attenzione, dunque, a focalizzare le singole crisi. Quello è il dito che ci invitano a guardare. La luna è tutt’altro. È la revisione dei sistemi parlamentari.