«In media nessuno degli scioperi degli ultimi anni ha registrato grandi adesioni, ma le circa 100.000 persone che ieri hanno deciso di non lavorare per seguire la protesta della Cgil rappresentano un minimo storico. Parliamo del 4,4% del totale, più o meno un terzo dei 300.000 statali iscritti al sindacato di Landini. Vuol dire che anche i suoi sono stufi di portare avanti battaglie politiche che alla fine non danno vantaggi ai lavoratori». Paolo Zangrillo è il ministro della Pubblica amministrazione e negli ultimi mesi si è scontrato obtorto collo con il radicalismo dell’ex Fiom.
Per mesi e mesi i no dei compagni hanno bloccato il rinnovo dei contratti della Pa. Nonostante i 20 miliardi messi sul piatto dal governo. E nonostante fossero già pronte le risorse per i rinnovi successivi. Poi è bastato che la Uil tornasse a ragionare e si decidesse a firmare per garantire a più di 2 milioni di dipendenti aumenti da 170 euro al mese. E altrettanti dovrebbero arrivare nei prossimi mesi. Senza ovviamente la firma di Landini.
Ministro c’è anche il peso della trattativa per il rinnovo contrattuale dietro al risultato disastroso dell’ennesimo sciopero di venerdì?
«Non anche, io direi soprattutto. Guardi io ho seguito quel tavolo e le dico che avevo una sensazione abbastanza lampante. A me è sembrato che i rappresentanti della Cgil si rendessero conto che sul piatto c’era un’offerta vera e concreta, di fronte alla quale sarebbe stato autolesionistico fare un passo indietro, ma che non avessero alternative».
In che senso?
«Nel senso che i miei interlocutori erano a disagio, magari mi sbaglio, ma sembrava che gli fosse stato imposto un diktat politico rispetto al quale avevano le mani legate. Un diktat che non ha nulla a che vedere con il ruolo che dovrebbe avere chi rappresenta gli interessi e i diritti dei lavoratori. Va da sé che questa posizione ha portato la Cgil a isolarsi e buona parte degli iscritti a non poterne più».
A non poterne più di cosa?
«Ma scusi, da quando sono al governo abbiamo chiuso la tornata contrattuale 2019-2022, aperto e chiuso quella 2022-2024 e ci accingiamo, questione di settimane, ad aprire quella 2025-2027. Una cosa del genere non era mai successa».
Al di là delle statistiche, cosa vuol dire tutto questo per i lavoratori?
«Tradotto in soldoni significa che il governo ha stanziato 20 miliardi e che nel periodo 2021-2027 i salari degli statali aumenteranno del 16-18%. Ecco, Landini parla tanto della necessità di far recuperare potere d’acquisto alle retribuzioni e di avvicinare gli stipendi pubbliche a quelle dei privati, e poi si chiude a riccio di fronte a numeri del genere? È chiaro che sta facendo politica, finalmente i suoi se ne sono resi conto e prendono le distanze».
Dopo il flop dello sciopero di ieri Landini dovrebbe fare un passo indietro? O comunque i suoi dovrebbero pressarlo affinché lo faccia?
«Guardi io sono focalizzato sul mio impegno, sulla responsabilità che ho nei confronti di 3,4 milioni di statali e non mi permetterei mai di dire cosa deve fare a una confederazione che ha la storia della Cgil. Mi sento però libero di evidenziare che non capisco cosa pensano di ottenere continuando su questa strada. Anzi le dirò che auspicherei un ritrovato clima di riappacificazione tra Cgil, Cisl e Uil, ma con questa leadership non mi sembra ci siano i presupposti».
A fronte di un clima che sta diventando sempre più teso. Ieri a Firenze, dove parlava il leader della Cgil, sono state distribuite banconote fasulle con l’effige sua e del premier Meloni.
«Un brutto episodio che a me sicuramente dispiace, ma che trovo ancor più offensivo verso tutti i dipendenti della pubblica amministrazione che lavorano seriamente e hanno visto nel rinnovo e negli aumenti contrattuali un giusto premio per i loro sforzi. Io penso che rispetto a un lavoratore pubblico che in 6-7 anni vede la busta paga crescere del 16-18%, non sia corretto dire che sta guadagnando soldi falsi».
Episodio che fa il paio con quello di Genova, dove Landini non si è scusato con i sindacalisti della Uilm menati dai colleghi della Fiom.
«Episodio che conferma il clima di estrema tensione che stiamo vivendo. Più c’è agitazione e più chi ha un ruolo istituzionale dovrebbe mostrare senso di responsabilità».
Può essere più specifico?
«Guardi, noi assistiamo ormai da tempo a reiterate manifestazioni di violenza da parte dei pro Pal e il fatto che pure il sindacato si renda complice di comportamenti del genere va assolutamente stigmatizzato».
E Landini non l’ha fatto.
«Sbagliando. Perché la storia di questo Paese è ricca di nette prese di distanza della Cgil rispetto alle aggressioni, penso ai tempi delle Brigate Rosse. Mentre ora a Genova si adotta la strategia del silenzio che però rischia di essere confusa con l’assenso. La dirò di più...».
Prego.
«Il fatto che viviamo tempi balordi è dimostrato da quello che è successo alla “Stampa” a Torino, un assalto assolutamente da condannare. Un episodio di una gravità assoluta e trovo incredibile che qualcuno a sinistra abbia usato quanto successo come pretesto per dare la colpa alle Forze dell’ordine che non c’erano».
- Video del nipote dell’Avvocato: «Società fuori dal mercato». L’offerta di Tether (1,2 miliardi) è troppo bassa per il cda.
- Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco. Il rampollo sbaglia però si consola con la liquidità delle cessioni: 4 miliardi al 2025.
Lo speciale contiene due articoli.
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco
Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
Giovanna Rei è un’attrice che ha conosciuto la grande notorietà, senza inseguirla, spesso quasi per caso, ma non hai mai avuto paura di fare un passo indietro pur di difendere se stessa e la sua vita. È appena apparsa nella serie tv Noi del Rione Sanità di Luca Miniero, trasmessa da Rai 1 con ottimi riscontri di pubblico. Una buona occasione per fare il punto sulla sua carriera.
Noi del Rione Sanità è stata un’esperienza che l’ha toccata nel profondo.
«Mi piacciono tantissimo le storie di rivalsa sociale e l’idea della gratitudine, anche se un mio amico mi dice sempre che è più facile incontrare Dio che la riconoscenza. Essendo napoletana, già conoscevo la storia di don Antonio Loffredo. La mia vicina di casa era un’assidua frequentatrice della parrocchia e andava ad aiutarlo nelle varie faccende. Il rione era abbandonato, lui è arrivata e ha sradicato la mentalità arrendevole, per cui ha salvato tanti ragazzi. È stato come un segno del destino ricevere questa parte».
Lei ha cominciato la sua carriera a Napoli, con Renato Carpentieri, straordinario attore.
«Il mio insegnante di recitazione del liceo mi portò a vedere uno spettacolo teatrale, in cui c’era Renato. Dopo averlo visto, ho detto: “Basta, faccio l’attrice e voglio cominciare con lui”. Renato fu carino, mi disse di andare a uno dei successivi casting e mi diede delle indicazioni. Io mi presentai come Mirandolina, tutta carina, loro furono molto dolci e alla fine mi scelsero. La sua grande idea fu di abbinare al teatro l’architettura, rispolverando la bellezza delle ville vesuviane, come Villa Bruno a San Giorgio a Cremano e Villa Campolieta a Ercolano, per cui facevamo un percorso teatrale e accompagnavamo gli spettatori nelle varie stanze. Io, tra l’altro, ero iscritta alla facoltà di Archittettura, quindi c’era una comunanza di interessi con Renato».
Quando ha deciso di intraprendere definitivamente la carriera d’attrice?
«Nonostante fossi estremamente timida, sentivo che recitare per me era catartico, mi aiutava a stare meglio. Io ero una ragazza che non esprimeva le emozioni, osservavo, ma tenevo tutto dentro. Invece grazie al teatro ho imparato a dire: “Bello, grazie, complimenti…”, tutte cose che sembrano scontate, ma non è semplice esprimere i propri sentimenti».
È una difficoltà che aveva fin da piccola?
«Avevo difficoltà a comunicare fuori dal mio microcosmo. In famiglia mi conoscevano come una nerd che stava sempre chiusa in stanza, mentre a scuola ero un capobranco, facevo delle cose pazzesche. C’era una dicotomia così evidente che la testa mi diceva: “Ma chi sono delle due?!”».
Quindi il percorso dell’attrice l’ha aiutato a ricomporre le due anime?
«Sì, esatto».
Poi ha lasciato l’università?
«Sì, a un certo punto l’ho dovuta mollare. La fortuna è stata che subito dopo quell’esperienza, siccome avevo un faccino molto carino, mi chiamarono molte produzioni e cominciai a lavorare tantissimo».
Ha esordito con L’ultimo Capodanno di Marco Risi, diventato nel tempo un film di culto.
«Un flop incredibile, fu smontato, rimontato, rismontato, rimontato ancora, ogni tanto lo riproponevano, ma era troppo moderno per l’Italia. Sarei curiosa di vedere il film per ogni montaggio. Poteva andare bene in America, dove erano abituati a Tarantino, non qui da noi”.
Ha ricordi del provino?
«Marco Risi mi osservò e mi disse: “Ma che bei capelli che hai!”. Io lo guardai incredula perché per me era una cosa normale, sono lì da sempre! Ero una ragazzina. Suo padre, Dino Risi, mi voleva coinvolgere in un progetto, ma io non capivo niente lì per lì».
Un altro incontro importante è stato con Carlo Vanzina.
«C’erano stati due incontri con Carlo, uno a Capri e l’altro quando mi vide ne L’ultimo capodanno e mi convocò per incontrarmi perché lui e Marco Risi erano molto amici».
A Capri dove l’aveva incontrato?
«Sono cresciuta a Capri, avevo la famiglia lì, e Carlo veniva spesso in vacanza. Io ero proprio la classica ragazzina caprese che gironzolava con il vestitino a fiori e il caratteristico sandalo. Ci incontrammo quando lui stava cercando una ragazza del posto per Anni ’50».
È stata la svolta della sua carriera?
«Assolutamente, però non l’ho saputa cogliere fino in fondo perché tra la fiction e il cinema preferii la prima, che all’epoca veniva quasi vista come una cosa di serie B, quindi difficilmente poi riuscivi a fare il cinema, dove infatti ho lavorato meno. È molto importante creare una rete di conoscenze, un gruppo nell’ambiente, mentre io lavoravo sul set e poi basta».
Non frequenta il mondo del cinema?
«Sono sempre stata molto amante delle mie cose, delle mie abitudini, e sono costantemente alla ricerca di ciò che mi fa stare meglio».
Malgrado non abbia coltivato le amicizie, ha sempre lavorato con continuità.
«Quasi sempre. Quando feci per quattro anni Camera Café, rimasi tagliata fuori da ogni altra cosa perché era un lavoro quotidiano che mi ha tolto anni preziosi, però sono contenta di averlo fatto. All’epoca avevo un fidanzato francese e quindi, frequentando Parigi, già conoscevo il programma. Lì era un fenomeno culturale, ne parlavano di tutti».
Ha avuto un grande successo anche in Italia.
«Per il pubblico giovanissimo ero Giovanna Caleffi di Camera Café, per il pubblico adulto, che lo seguiva meno, era quella sparita improvvisamente dalla circolazione. Con l’autore Christophe Sanchez avevo già fatto un programma pazzesco tra Truman Show e Scherzi a parte…».
Il protagonista.
«Sì. Facevo credere a un ragazzo della mia età di essere innamorata di lui. Ho vissuto una vita fittizia per un mese: era una commistione tra la realtà e immaginazione, non si capiva più cosa fosse vero e cosa fosse finto».
Quindi avevate sempre le telecamere che vi riprendevano?
«Sempre, tant’è che temevo che fossi anch’io vittima di questa storia, finché non l’ho visto montato. Pensavo: “Non è che staranno fregando anche me?”».
Com’era stata individuata la vittima?
«Avevano messo un annuncio sulle reti Mediaset: “Se hai un amico al quale vuoi fare uno scherzo, chiamaci”. Lui fu tirato dentro dal suo miglior amico. Era un insegnante di tennis e l’amico gli fece credere che era stato chiamato a Courmayeur per fare la stagione estiva in un hotel, pagato profumatamente. L’amico lo accompagna, durante il viaggio fanno un incidente e nella macchina con cui avviene il tamponamento ci sono ovviamente io. Poi ci incontriamo allo stesso hotel, più o meno per caso. Da lì parte una spy story che tu non hai idea! Io facevo una fatica terribile perché mi veniva talmente da ridere…».
Le davano una parte ogni giorno?
«C’era un canovaccio e poi avevo un piccolo microfono nell’orecchio, come quello che portava Ambra a Non è la Rai. Grazie ai capelli lunghi non si vedeva».
Ha avuto successo?
«Sono rimasta in mente a tantissime persone per anni perché, appena mi vedevano, ridevano».
E poi com’è finita?
«Ero uno scherzo terribile e la vittima c’è rimasta malissimo. Per molto tempo era arrabbiato con me, anche se aveva capito che io non avevo fatto niente».
Un altro grande successo al quale ha partecipato era Elisa di Rivombrosa.
«Non si poteva uscire di casa. Gente di tutti i livelli culturali, dal notaio alla signora snob, non ti aspettavi che venissero a dirti: “Io amo Elisa di Rivombrosa2. Io rimanevo così perplessa».
Parallelamente alla tv ha continuato a fare teatro?
«Quando non avevo impegni televisivi, ho sempre fatto teatro. Fino al Covid stavo nella compagnia di Maurizio Casagrande, una persona molto divertente che crea una bella atmosfera tra gli attori».
Per lei è molto importante l’ambiente di lavoro…
«Allora ti dico la verità: io amo il mio lavoro, mi ha dato tanto e ha fatto sì che diventassi la persona che sono, però lo amo di più quando sto bene. Quando ci sono troppe tensioni, sto talmente male che sono disposta a rifiutare».
Le è mai capitato di andarsene da un set?
«Sì, mi è capitato. Sicuramente non l’ho fatto per un colpo di testa, ma dopo una serie di difficoltà, per cui mi dicevo: “Scelgo la salute o la crisi mentale?”. Ho scelto la prima. Amo il mio lavoro, lo ringrazio, però è più importante la mia vita».
Quindi a un certo punto si ferma?
«Sì, quando la mia vita diventa meno importante».
E non le fanno scontare questi periodi di assenza?
«Poi, sì, la paghi e per rientrare ce ne vuole. Devi accettare le regole del gioco: anche se sei abituato a fare dei ruoli importanti, ti offrono dei ruoli più piccoli».
Sogna di lavorare con un regista?
«Con Ozpetek. L’ho sfiorato perché feci uno spot pubblicitario con lui per le Poste. Penso che sarebbe affascinato dai racconti della mia vita».
Nella sua carriera trasversale ha condotto un programma con Maurizio Costanzo su Rai Premium, Memory.
«Condurre è un parolone. Ero lì accanto a lui e gli facevo un po’ da supporto, davo un po’ di colore».
Come l’ha chiamata?
«Ci conoscevamo. Avevo girato uno spot in Sudafrica, in cui ero una mondina che schiacciava l’uva e quello spot mi aveva fatto diventare “nazional-popolare”, per cui Costanzo mi chiamò per andare nel suo salotto. Da lui iniziò una lunga lista di inviti per una serie di puntate più leggere in cui invitava i comici del momento e io ero la presenza femminile. Quando parlo di Carlo Vanzina e Maurizio Costanzo, mi viene da piangere perché per me erano veramente come dei parenti, oltre ad essere stati due punti di riferimento fondamentali nel lavoro. Al funerale di Carlo ho pianto come al funerale di mio nonno».
Un legame molto forte.
«Per me non esiste il rapporto freddo, professionale, poi certo sono una che sa stare al posto suo e non mi piace invadere gli spazi altrui, però dentro di me accadono delle cose così profonde. Sono fatta così, un po’ sentimentale!».
Messaggio in bottiglia da Bruxelles: per boicottare il vino ci occupiamo del vetro, così come suggerito dai tedeschi. Cancellare le bottiglie scure in vetro pesante vuol dire impedire che in Europa si producano spumanti, a cominciare dallo Champagne, e olio extravergine di oliva. Vuol dire sottrarre all’Ue un ammontare di esportazioni che vale circa 11 miliardi (8 dagli spumanti, 3 dall’extravergine). Tutto perché nella nuova direttiva sugli imballaggi, figlia del Green deal (che è durissimo a morire), c’è scritto: «Entro il 2030 un imballaggio o una bottiglia costituiti per più del 30% del proprio peso da materiale non riciclabile non può più essere messo in commercio». È il seguito del regolamento sugli imballaggi che si pensava fosse stato accantonato: prevede che il vuoto a perdere sia riciclato al 90%, però si continua a discutere se debba invece essere del tutto abolito (si fa fatica a pensare che uno vada - tanto per restare nel vino - a Beaune a farsi rabboccare La Tâche o da Antinori a chiedere di fare il pieno di Solaia), e ancora se debbano andare fuori commercio le bottiglie che pesano più di 700 grammi.
L’allarme sul nuovo capitolo - quello che riguarda le bottiglie da spumante o da vini da invecchiare e l’olio extravergine d’oliva (che teme come la peste la luce del sole) - è stato lanciato dal presidente del Coreve, il consorzio italiano per il riciclo del vetro che detiene il record europeo, con l’81% di vetro «circolare», pari a 2,1 milioni di tonnellate nel 2024 (ben sei punti sopra le quote massime richieste da Bruxelles). Che dice: vogliono cancellare le bottiglie scure per il Prosecco. Spiega il presidente Gianni Scotti che tutto nasce dall’idea di Germania e Danimarca d’imporre in Ue solo le bottiglie da birra. S’attaccano al fatto che i lettori ottici, quando devono selezionare una bottiglia scura, la scambiano per ceramica e non la mandano alla fusione, abbassando il tetto delle quantità riciclate. «Abbiamo dimostrato», spiega Scotti, che le nostre macchine arrivano a scartare meno dell’1% del vetro. Speriamo di convincere l’Europa che le indicazioni che vengono da loro sono obsolete». E anche Assovetro, il cui presidente è Marco Ravasi e che usa il rottame di vetro, si dice preoccupata per la piega che sta prendendo Bruxelless. La speranza è l’ultima dea, ma la concorrenza interna all’Ue può molto di più. Gli attacchi al vino da parte dei Paesi del Nord, che lamentano il fatto che sulla birra c’è una (minima) accisa e sul vino no, si ripetono a ondate. Prima l’Irlanda ha imposto le etichette con scritto «il vino fa male», violando i trattati, ma Ursula von der Leyen ha dato loro ragione; poi la Commissione ha approvato il Beca (documento anti cancro che deve passare dall’Eurocamera) per ipertassare il vino, restringerne la vendita e abolirne la promozione; ora si passa dal vetro. Tutto a danno dei Paesi mediterranei, ignorando che in premessa, nel regolamento sugli imballaggi, c’è scritto: «Imballaggi appropriati sono indispensabili per proteggere i prodotti».
Senza bottiglie scure non si può fare la rifermentazione in bottiglia. Solo Cristal in Champagne usa bottiglie bianche, ma tenute al buio. Lo stesso vale per il metodo classico italiano (sempre di rifermentazione in bottiglia si parla), ma anche per gli spumanti fatti in autoclave (il Prosecco appunto). Per avere un’idea, s’imbottigliano 300 milioni di Champagne, gli italiani tappano un miliardo di bottiglie, gli spagnoli 250 milioni. Va bene solo ai tedeschi che fanno tante bollicine ma così leggere che, comunque, non passerebbero l’anno e dunque non hanno bisogno di protezione dal sole, né di contenere le pressioni di rifermentazione. Il caso dei vetri confermerà invece agli inglesi che la Brexit è stata una mano santa. Sono i più forti consumatori di spumanti al mondo, ma sono anche coloro i quali li hanno resi possibile e ora ne producono di ottimi (ad esempio Bolney).
Il metodo di rifermentazione fu codificato da due marchigiani: Andrea Bacci (De naturalis vinorum historia del 1599) e Francesco Scacchi (1622, De Salubri potu dissertatio) mettono a punto la tecnica, tant’è che si potrebbe parale di un metodo Scacchi. Dom Pierre Pérignon arriva sessant’anni dopo. Ma i due italiani hanno un limite: le bottiglie di vetro soffiato scoppiano. In rifermentazione si arriva fino a 6 atmosfere di pressione. Però nel 1652 sir Kelem Digby cambiò tutto. Giorgio I aveva impedito di tagliare alberi per alimentare i forni vetrai, cosi Digby usò il carbone. Questo gli consentì di alzare le fusioni e mescolare carbonio alla pasta vitrea: nacque l’iper-resistente «English Bottle». Gli inglesi, primi clienti dei vini francesi, fecero con il vetro la fortuna dello Champagne. E questo spiega perché le bottiglie sono pesanti e scure (fino a 9 etti per il metodo classico, 700 grammi quelle da Prosecco, mezzo chilo quelle da vino, anche se l’italiana Verallia ha prodotto la Borgne Aire di soli tre etti). Ma l’Europa non lo sa o fa finta. Perché attraverso le bottiglie (produrre un chilo di vetro vergine vale 500 grammi di CO2, ma nel 2024 l’Italia col riciclo ha risparmiato quasi 1 milione di tonnellate di anidride carbonica, 358.000 tonnellate di petrolio e 3,8 milioni tonnellate di materiali) ha capito che può frenare la crescita di alcuni Paesi. Solo che ora dovranno spiegarlo ai vigneron francesi, che da mesi protestano e hanno già estirpato 12.000 ettari di vigna. Ci sta che a Bruxelles dalle cantine arrivi un messaggio in bottiglia: o lasciate perdere, o i trattori che il 18 stanno per circondare palazzo Berlaymont sono solo un aperitivo.









