Guai ad audire i danneggiati dai vaccini anti Covid, perché sono «no vax». È la stravagante logica che la sinistra ha illustrato ieri, durante la riunione dell’Ufficio di presidenza della commissione parlamentare sulla pandemia. «Esponenti del Pd e del M5s», riferiva una nota dei meloniani,«si sono opposti alla proposta di Fratelli d’Italia di audire associazioni di danneggiati da vaccino anti Covid. In uno slancio di surrealismo, sono arrivati a definire sdegnosamente queste persone “no vax”. Ma come? Cittadini che si sono fidati del governo di allora e sono andati a vaccinarsi vengono ora etichettati come contrari al vaccino?».
La teoria dei rappresentanti dem e pentastellati, in particolare la senatrice Ylenia Zambito (Pd) e il deputato Alfonso Colucci (Movimento 5 stelle), sarebbe questa: gli ammalati hanno maturato le loro convinzioni - antiscientifiche, laddove il punto di riferimento della scienza forse sono i tweet di Roberto Burioni - dopo essere stati colpiti dagli effetti avversi delle iniezioni. Significherebbe che alle opposizioni non manca solamente il senso della realtà: uno che va a vaccinarsi non può essere contrario ai vaccini. Alla sinistra sembrerebbe fare difetto anche l’umana comprensione per i sofferenti. Voi come reagireste? Se doveste rimanere invalidi a causa di un farmaco, pensereste di avere il diritto di essere almeno un po’ incazzati? E non vi incazzereste ancora di più se i vostri rappresentanti vi negassero l’ascolto? I danneggiati da vaccini Covid non saranno mica stati tutti sostenitori del centrodestra. Ma se anche i medicinali di Astrazeneca, Pfizer e Moderna avessero selezionato politicamente le loro vittime, gli onorevoli della Repubblica, ai sensi dell’articolo 67 della Costituzione, sarebbero lo stesso chiamati a rappresentare la nazione. Cioè, tutto il popolo e non solo gli elettori di riferimento.
«Nonostante l’ostruzionismo», hanno promesso gli esponenti del partito del premier, «andremo avanti per dare risposte ai cittadini che attendono comprensione, protezione e giustizia dallo Stato». Raggiunto dalla Verità, il senatore di Fdi, Marco Lisei, presidente della commissione sull’emergenza Covid, ha ricordato che «la verifica su effetti avversi e danni da vaccino contro Sars-Cov-2 rientra nella legge istitutiva» dell’organismo parlamentare. «Quindi, era doveroso aprire questa indagine. Inizieremo con un breve ciclo di audizioni di soggetti istituzionali e associazioni maggiormente rappresentative di danneggiati. È una premessa», ha precisato, «perché poi ci sarà sicuramente bisogno di approfondire ulteriormente il tema». È plausibile che, mentre Pd e 5 stelle spingeranno per invitare membri di Aifa, Inail o Ema, la cui litania dovrebbe ruotare attorno al ridimensionamento del fenomeno degli effetti collaterali e alla rapida evasione dei risarcimenti, il centrodestra chiami a testimoniare quanti hanno patito sulla propria pelle le conseguenze di un trattamento sanitario che, semmai, avrebbe dovuto salvarli. «Maggioranza e opposizione», ha continuato Lisei, «hanno manifestato sensibilità diverse. Era mio dovere raccoglierle entrambe. D’altronde, credo sia giusto anche dar voce alle associazioni di danneggiati, che sono appunto persone che hanno rispettato quanto imposto dallo Stato, ma che stanno soffrendo danni e meritano tutele adeguate».
È un aspetto che non bisogna dimenticare: è vero che chi si recò negli hub vaccinali lo fece fidandosi delle indicazioni del governo e degli esperti; ma è vero pure che, in una escalation giuridica e dialettica di repressione, l’esecutivo di Mario Draghi e Roberto Speranza introdusse la «spinta gentile» del green pass, della sospensione dal lavoro e dallo stipendio e delle multe per gli over 50 renitenti. Era il periodo in cui i politici, i Vip e i telepredicatori in camice bianco gareggiavano a chi sparava l’invettiva più feroce contro i non vaccinati, o semplicemente contro chi contestava la carta verde: «Sorci», «Si paghino le cure in terapia intensiva», «Si usi il metodo Bava Beccaris su chi manifesta». Se chi si è sottoposto alla puntura, per convinzione o per costrizione, poi ne è rimasto deturpato, è sacrosanto che una commissione d’inchiesta gli dedichi un minimo di attenzione.
Alla Verità ha espresso tutto il suo sdegno per l’atteggiamento della sinistra anche Dario Giacomini, di ContiamoCi!. L’associazione raduna tante vittime del vaccino anti Covid e «condanna quanto avvenuto in Ufficio di presidenza». Il gruppo, ha commentato il dottore, «difende realmente la Costituzione. A differenza di chi si proclama suo paladino, ContiamoCi! ha sempre lottato contro l’obbligo vaccinale e ha difeso i lavoratori e i cittadini colpiti, senza mai discriminare chi ha compiuto scelte diverse. Medici, operatori sanitari e cittadini», ha proseguito Giacomini, «convivono in ContiamoCi! senza distinzione di stato vaccinale, perché lo stato vaccinale non è un criterio di valore, né di esclusione. Questa è uguaglianza reale, non propaganda. Oggi, ancora una volta, ContiamoCi! si schiera a fianco di chi, dopo essersi fidato delle indicazioni dello Stato, viene ora insultato e delegittimato da chi vorrebbe cancellare errori e responsabilità politiche. Le vittime non si zittiscono con le etichette. E la Costituzione non si difende negando i diritti, ma garantendoli». Se i danneggiati da vaccino sono una minoranza, tanto meglio: a Pd e 5 stelle dovrebbero piacere ancora di più.
Non passa giorno senza che qualcuno non annunci una prossima invasione dell’Europa da parte dei russi. I carrarmati di Putin sarebbero dietro l’angolo e gli aerei di Mosca pronti al decollo. A sostegno della tesi di un attacco imminente vengono lanciati moniti dai Paesi che un tempo facevano parte della cortina di ferro. Ma anche l’intelligence dei cosiddetti alleati, cioè di americani e inglesi, non si tira indietro.
Senza dimenticare gli appelli dei generaloni di cui abbiamo dato conto qualche giorno fa, con l’invito dei capi di Stato maggiore francese e britannico a prepararsi a perdere in battaglia i propri figli. Se questo è il clima che precede il Natale, e sul quale non sembrano influire le rassicurazioni del Cremlino che si dice disposto a «confermare legalmente di non voler dichiarare guerra alle Ue o alla Nato» (la dichiarazione è di ieri), la notizia che gli allarmi droni sulle basi militari europee sono spesso infondati contribuisce ad allentare la tensione.
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
Le centrali di telecomunicazioni e gli edifici che ospitano apparati di rete, alimentazione e sistemi di raffreddamento sono fra le componenti più energivore dell’infrastruttura digitale. L’idea lanciata da Fibercop ed Enercop è usare questa capillarità territoriale come leva per produrre energia rinnovabile in prossimità dei consumi, trasformando progressivamente siti tecnici e patrimonio immobiliare in una rete fotovoltaica diffusa.
Le due aziende, entrambe parte del gruppo Optics Holdco, impostano l’operazione come un investimento strutturale: la produzione in sito, replicata su migliaia di asset, mira a sommare contributi unitari in un volume energetico significativo, riducendo al contempo l’impronta carbonica dell’infrastruttura digitale.
Il programma, battezzato «Progetto Solare», mira alla realizzazione di oltre 2.000 impianti entro il 2027 e a circa 200 gigawattora di energia rinnovabile all’anno, così da incrementare in modo sostanziale l’autosufficienza energetica della rete di Fibercop. La prima fase esecutiva è già partita: 26 impianti in installazione, con completamento previsto entro l’inizio del 2026.
La dimensione industriale emerge dai numeri della tranche iniziale: potenza complessiva superiore a 3 megawatt peak (la potenza nominale di generatore di picco che si utilizza negli impianti fotovoltaici) e produzione attesa di circa 4,35 gigawattora l’anno. L’impatto ambientale stimato è immediato, con circa 1.435 tonnellate di anidride carbonica risparmiate annualmente. Come spiegano le due aziende in una nota, l’ordine di grandezza viene descritto con equivalenze come l’assorbimento di oltre 120.000 alberi adulti o la rimozione di più di 700 automobili dalla circolazione stradale per un anno.
«L’integrazione di fonti rinnovabili nei nostri asset è una leva strategica per rendere le reti più sostenibili e resilienti», ha affermato Massimo Sarmi, presidente e amministratore delegato di Fibercop. «L’energia autoprodotta ci consente di ottimizzare l’efficienza operativa e di rafforzare il nostro contributo alla decarbonizzazione. A regime, il progetto ci permetterà di coprire tramite fotovoltaico circa il 35% dei consumi complessivi di Fibercop.»
I 26 impianti sono distribuiti lungo il territorio nazionale e includono siti di particolare rilievo: tra quelli citati, l’impianto di via Oriolo Romano, a Roma, con 1.100,84 chilowatt peak di potenza, è uno dei più significativi della prima tranche del progetto.
Un punto di discontinuità riguarda l’architettura di autoconsumo. Per ciascun impianto è prevista l’attivazione della configurazione Cacer (Configurazioni di autoconsumo per la condivisione dell’energia rinnovabile), un meccanismo che permette a un utente di usare l’energia prodotta dai propri impianti rinnovabili anche se si trovano in un punto diverso rispetto al luogo in cui consuma l’elettricità. Oggi la configurazione Cacer è già operativa su due impianti, consentendo l’autoconsumo istantaneo dell’energia prodotta e l’ottimizzazione dei flussi energetici a beneficio delle infrastrutture di rete. Tutti i nuovi impianti che verranno progressivamente realizzati saranno iscritti al Gse, al fine di attivare la configurazione Cacer non appena tecnicamente possibile. Questo approccio permetterà di massimizzare il valore dell’energia autoprodotta, ridurre ulteriormente i prelievi dalla rete e abilitare modelli avanzati di condivisione dell’energia rinnovabile, rafforzando la sostenibilità economica e ambientale del progetto.
«L’avvio di questa prima fase rappresenta un traguardo fondamentale per Enercop e conferma il nostro impegno nell’integrazione delle energie rinnovabili nel settore delle telecomunicazioni», ha dichiarato Giulio Carone, amministratore delegato di Enercop. «La collaborazione con Fibercop è orientata a soluzioni energetiche innovative, in linea con gli obiettivi nazionali di sostenibilità».
Nel disegno complessivo dell’operazione, la metrica chiave sarà l’impatto sul profilo di consumo: l’obiettivo dichiarato è arrivare a coprire tramite fotovoltaico circa il 35% dei consumi complessivi di Fibercop. Se la roadmap verrà rispettata, «Progetto Solare» potrà ridefinire il ruolo energetico delle centrali di telecomunicazioni: da punti di consumo a nodi ibridi capaci di produrre e condividere energia rinnovabile a supporto di una rete sempre più critica per cittadini, imprese e servizi pubblici.
A volte la trovata geniale ce l’abbiamo talmente davanti agli occhi che non riusciamo a vederla. Chissà che cosa s’inventerà stavolta Luca Medici, in arte Checco Zalone, che a cinque anni da Tolo Tolo in cui si era auto diretto, torna al cinema con la regia del fedele Gennaro Nunziante (cinque film su sei in coppia)? Invece, a volte non serve lambiccarsi il cervello, basta guardarsi attorno per vedere chi sono gli adulti, o presunti tali, di oggi. E chi sono i ragazzi e che cosa cercano davvero.
Realizzato da Indiana production con Medusa, in collaborazione con Mzl e Netflix e con il contributo degli investimenti del ministero della Cultura, Buen camino esce il 25 dicembre in mille copie, destinate ad aumentare dopo la prima settimana di programmazione. Rispetto a Tolo Tolo che s’infilava nella difficile tematica dell’immigrazione stentando a trovare una chiave originale (pur sempre 48 milioni al botteghino), Buen camino è incentrato sul rapporto tra un padre e una figlia che, d’istinto, potrebbe risultare «una cosa un po’ ruffiana», ammette Checco. In realtà, è una storia semplice che tocca temi complessi con leggerezza, facendo ridere tra scorrettezze e le iperboli classiche della coppia Zalone-Nunziante. L’attesa è notevole, anche dopo le accuse di Pietro Valsecchi, ex produttore del comico pugliese, intervistato qualche giorno fa dal Corriere della Sera: «Luca era diventato ossessivo… voleva essere accettato dall’intellighenzia di sinistra, che non l’aveva mai capito». Che cosa replica? «Gli voglio bene», è la lapidaria risposta.
Mentre nella megavilla in Sardegna, tra piramidi faraoniche e piscine hollywoodiane fervono i preparativi per la festa dei 50 anni di Eugenio Zalone, ignorante produttore brianzolo di divani, si scopre che l’unica figlia Cristal (Letizia Arnò), così in omaggio alle bollicine francesi, è scomparsa, ribelle alla ricchezza e alla vacuità strabordanti. È l’ex moglie (una Martina Colombari con lunghi capelli grigi) a strappare il padre dallo yacht e dalle sinuosità della nuova fiamma venticinquenne, costringendolo alla ricerca dell’adolescente. Niente di più improbabile. Il papà, tutto tatuaggi e carte di credito, non sa nulla della ragazzina ma, per vincere la sfida con il compagno dell’ex moglie, un regista palestinese («l’unico che occupa territori fuori dal Medio Oriente, gaza mia»), si attrezza all’impresa impossibile. La dritta giusta arriva dall’amica del cuore di Cristal e così eccolo pedinarla su una delle sue tante Ferrari nel Cammino di Santiago de Compostela. Determinata a proseguire la sua ricerca di autenticità, l’adolescente trascina il padre recalcitrante su sentieri assolati e dentro spartani ostelli. Ottocento chilometri a piedi, tra scomodità e imprevisti. In realtà, l’imprevisto più grande è il cambiamento delle persone.
Buen camino è una storia leggera e profonda, disseminata di battute che strappano risate improvvise e che potrà piacere anche a sinistra per la critica alla ricchezza più ostentata e kitsch.
Un film «famigliare», lo definisce Zalone. E con qualche cenno biografico, ammette, citando le sue figlie adolescenti «che passano la vita sul cellulare e sui social». «Siamo partiti dalla definizione del personaggio di Checco», racconta Nunziante. «È un ricco, è dio ma non alla ricerca di Dio, perché la ricchezza si sostituisce a Dio. Così, il luogo più stridente per lui è il Cammino di Santiago. Un posto religioso, ma non solo, e non di moda perché dopo la pandemia il Cammino è calato molto».
La storia scaturisce dal contrasto fra il personaggio di Checco e la ricerca della figlia. «Cristal si ribella alla ricchezza. Quello che manda in tilt noi adulti è quando i nostri ragazzi rifiutano quello che siamo. Allora ci accorgiamo che quello che possediamo non serve a nulla», ragiona il regista. La questione della paternità è centrale. «Da tempo riflettiamo sulla società senza padri. Il primo motivo è che non sappiamo più chi è l’uomo, di conseguenza non possiamo sapere chi è il padre. Il personaggio di Checco è partito che era già padre ma non lo sapeva e torna che lo è. Diventa quello che è ma non sapeva di essere. Questo è il nostro cinema. Se l’uomo rimane lo stesso fino alla fine, siamo nel cinema americano. I finali del cinema europeo cercano di andare incontro all’uomo e di aiutarlo a crescere».
Zalone è curioso della reazione del pubblico giovane: «Un po’ mi spaventa. Mia figlia non l’ho mai vista attenta a un contenuto che dura più di 40 secondi e questo è un film tradizionale, di 90 minuti». Qualcuno lo stuzzica sulle battute scorrette come quella su Gaza. «Credo che anziché lamentarsi del politicamente corretto, la risposta migliore sia essere scorretti con intelligenza». Interessante anche sapere che rapporto hanno Zalone e Nunziante con la spiritualità. «A 17 anni non vivevo questa ricerca. Volevo fare il pianista, ma poi è emerso il comico. Ho sentito tanti racconti, chissà, un giorno non escludo di farlo sul serio questo Cammino, negli ostelli», ipotizza il comico. «Non so se spiritualità sia la parola giusta, ma sì, avevo la percezione che la vita non finisse nella vita», argomenta Nunziante. «Se perde la dimensione metafisica l’uomo impoverisce. Si finisce a parlare del sociale e il sociale ha rotto le scatole. Veniamo da decenni di derisione della condizione cristiana in una società in cui l’elemento prevalente è stato il marxismo. Mi piace misurarmi con l’ignoto, il comico fa questo e la commedia non dà risposte. Nel dubbio si cresce e davanti a un dubbio la commedia ne crea un altro. Chi fornisce risposte rasenta la volgarità».










