Includere escludendo, il club degli intelligenti per decreto è sempre un giro avanti anche sul Natale. Dopo avere trasformato i pastori in migranti, i re Magi in attivisti pro Pal, la Madonna in una peripatetica, San Giuseppe in una drag queen e la stella cometa in un razzo su Gaza, non restava che cancellare Gesù Bambino. In attesa di farlo dal presepe, a Reggio Emilia lo hanno espulso dal canto più amato dai bimbi, Jingle Bells. Una deportazione canora in piena regola, messa a punto dai parolieri della scuola primaria San Giovanni Bosco (istituto comprensivo Ligabue) che hanno deciso l’epurazione religiosa dalla versione italiana per il consueto motivo peloso: non urtare la suscettibilità dei musulmani. I quali, peraltro, da anni vedono in questa gratuita sottomissione culturale uno dei segnali più evidenti della degenerazione dei valori occidentali.
Il laicismo intrinseco della canzone americana - nata nel New England per celebrare la festa del ringraziamento fra cavalli, slitte e campanelli - non bastava a soddisfare il fanatismo anticlericale progressista. Nel testo italiano c’è quel nome, Gesù, che in vista della recita di Natale infastidiva a pelle gli ayatollah del woke. Nessun problema, i Mogol da scuola elementare hanno cambiato due strofe. Invece di «Aspettando quei doni che regala il buon Gesù» ecco «Aspettano la pace e la chiedono di più». E ancora «Oggi è nato il buon Gesù» diventa «Oggi è festa ancor di più». Il Dio cristiano è sparito dai radar e le nuove rime somigliano a un’omelia del cardinal Matteo Zuppi.
Tutti contenti in collegio docenti, soprattutto la preside Francesca Spadoni che ai genitori perplessi si è limitata a dire: «Jingle Bells, canto laico e folcloristico, esiste in molteplici versioni. Il team docente, nell’esercizio della propria libertà d’insegnamento, ha semplicemente scelto una versione in linea con i suoi obiettivi pedagogici e didattici». Se valesse il principio, sarebbe interessante leggere la sua versione onirica della Divina Commedia o del 5 Maggio del Manzoni. Del resto, se Dio è morto (Friedrich Nietzsche) non si capisce perché debba resistere quel neonato nella mangiatoia. Poiché siamo a Reggio Emilia, farebbero prima a metterci la benemerita Francesca Albanese con il pugno chiuso, e come nenia utilizzare gli sfottò della medesima al sindaco Marco Massari.
Il Pd locale gongola. Non gli restava che cancellare Gesù Bambino dai canti di Natale, terremotare i simboli della cristianità. Il consigliere comunale dem Federico Macchi ha parlato per tutti con prosopopea da Luciano Canfora: «La scuola, che peraltro è laica, deve educare e nel testo proposto ai bambini (in particolare dove al posto dell’attesa dei doni si è sostituita l’attesa di pace) colgo proprio un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace, temi che sempre dovrebbero caratterizzare la missione educativa dei nostri istituti». Già, perché Jingle Bells (titolo italiano Din don dan) è una pericolosa canzone bellicista.
L’annullamento culturale in nome di un’inclusione superficiale e sgangherata non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio di uno Stato, ma fa parte dello sciocchezzaio progressista al quale si accodano timidi cattodem avvolti nei sensi di colpa. In questo caso il partito di maggioranza si sentiva in dovere di assecondare le richieste dell’assessora alle Politiche educative con delega alla Scuola dell’obbligo, Marwa Mahmoud (musulmana di origine egiziana), che un mese fa aveva catechizzato gli insegnanti invitandoli a «decolonizzare lo sguardo» e a promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Detto fatto. Sbianchettare Gesù Bambino da Jingle Bells in italiano è il nobile risultato, ottenuto applicando il vecchio principio comunista «eliminarne uno per educarne cento».
L’iniziativa sta provocando inevitabili polemiche. Il capogruppo della Lega di Reggio Emilia, Alessandro Rinaldi, ha alzato il volume della radio: «Censurare Gesù dalle canzoni di Natale nelle scuole in nome dell’inclusione è una deriva inaccettabile. Una scelta sbagliata, ideologica e profondamente diseducativa. Il Natale ha un’identità chiara: è una festa cristiana». Il segretario provinciale di Fdi, Alessandro Aragona, definisce l’episodio «atto di autolesionismo culturale, la prova di una deriva ideologica della sinistra che mira a cancellare le radici storiche e della civiltà europea».
Il dossier è sulla scrivania del ministro Giuseppe Valditara, che potrebbe decidere di inviare gli ispettori per chiarire le responsabilità. Ma la reazione ministeriale sarebbe sproporzionata, addirittura superflua. In questi casi dovrebbero essere i genitori a prendere le distanze dal ridicolo. Anche perché la sacra famiglia, pur strapazzata dalla superficialità di chi pretende di includere escludendo 2.000 anni di cristianesimo, continua a parlarci. E giudica chi la sta violentando.
La sostituzione delle vetrate di Notre-Dame «s’ha da fare», lo ha deciso Emmanuel Macron. E così, da ieri, è possibile vedere il modello a grandezza naturale delle sei future vetrate realizzate dall’artista Claire Tabouret. Le opere sono esposte al Grand Palais sugli Champs Elysées.
Macron cerca di ottenere un po’ di visibilità visto che, in patria, è apprezzato solo dall’11% dei suoi concittadini e, all’estero, pare non imbroccarne una. D’altra parte, la visibilità offerta da quello che è uno dei più famosi monumenti del mondo non ha prezzo. Lo si è visto un anno fa, in occasione della riapertura della cattedrale. In quell’occasione, Macron aveva accolto in pompa magna, e a favor di telecamere, i grandi della Terra e aveva benedetto un concerto con varie star internazionali, che aveva come sfondo la facciata gotica della madre di tutte le chiese parigine.
Ma la voglia di modernità a Notre-Dame non è un pallino presidenziale recente visto che, fin dai primi giorni dopo l’incendio che ha distrutto la cattedrale parigina, Macron ha fatto e sbrigato pur di lasciare una sua impronta nella famosissima chiesa, a futura memoria.
Già il 5 maggio 2019 però, contro Macron c’era stata una levata di scudi da circa 1.000 docenti universitari, architetti ed esperti di restauro che gli avevano rivolto un appello, in una tribuna pubblicata da Le Figaro. Questo perché, mentre fumavano ancora le ceneri di Notre-Dame, Macron aveva già auspicato un «gesto architettonico contemporaneo» per la nuova guglia che sarebbe stata costruita al posto di quella, ideata dall’architetto Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, in occasione del restauro della cattedrale parigina, avvenuto a partire dal 1843. Fortunatamente per Notre-Dame, alla fine il presidente francese aveva mollato la presa. Tuttavia, a calmare la voglia di modernità dell’inquilino dell’Eliseo non è riuscita nemmeno la legge approvata dal Parlamento transalpino il 29 luglio 2019 intitolata «Per la conservazione e il restauro della cattedrale Notre-Dame di Parigi», ma anche l’istituzione di «una sottoscrizione popolare per questo scopo». Che tradotto, per gente meno intelligente del leader parigino, vorrebbe dire che la ricostruzione della cattedrale deve avanzare solo sui binari del restauro e della conservazione, invece che su quello della creazione ex-novo, anche perché c’è chi ha fatto donazioni proprio per i primi due scopi. All’inizio dell’anno scorso, poi, DIdier Rykner, fondatore del sito La tribune de l’art ha raccolto oltre 130.000 firme con una petizione contro le vetrate moderne. Il sito ha anche scritto in vari articoli che la sostituzione dell’opera di Violet-le-Duc, non rispetterebbe la Carta di Venezia del 1964, che tratta proprio del restauro e della protezione dei siti storici, artistici e monumentali, nonché la stessa legge del 2019. La Carta invita i Paesi firmatari (come la Francia, nel 1965) a non distruggere monumenti o opere d’arte sostituendoli con creazioni contemporanee. Va ricordato anche che, sempre nel 2024, la Commissione nazionale del patrimonio e dell’architettura francesi (Cnpa) ha espresso parere negativo al progetto delle vetrate e che, per essere pignoli, quelle di Violet-le-Duc sono uscite praticamente intatte dall’incendio che ha distrutto la chiesa madre di Parigi, il 15 aprile 2019. La Cnpa aveva presentato un ricorso all’equivalente del Tar parigino che, però, è stato respinto ed è previsto un appello.
I sostenitori del progetto di Macron non sono molti. Tra questi, quello di maggior peso è l’arcivescovo parigino, monsignor Laurent Ulrich che, come scriveva Vatican News nell’aprile 2024, auspicava che le nuove vetrate lasciassero «nell’edificio restaurato una traccia di questo evento» che ha distrutto la cattedrale. Non sono mancati sostegni alle vetrate moderne anche da parte di alcune voci del cattolicesimo progressista come l’ex direttore del quotidiano cattolico La Croix, Guillaume Goubert.
In ogni caso, anche senza le nuove vetrate, da quando è stata riaperta al pubblico, Notre-Dame sembra più un museo, per non dire un luna park, nel quale scorre quasi ininterrottamente un fiume di turisti. Gente che ha tutto il diritto di venire ad ammirare Notre-Dame, se non fosse che i fedeli parigini sono costretti a fare fatica per raccogliersi in preghiera nella loro cattedrale. Per questi frequentatori locali della chiesa madre parigina è complicato anche venire venerare le reliquie, come la Santa Corona portata da Gesù Cristo durante la sua Passione. In effetti, sia questa pratica sia la partecipazione alle messe deve essere prevista con un certo anticipo e bisogna anche essere pronti a fare la fila per lassi di tempo variabili, prima di accedere all’edificio di culto.
Vicino all’uscita di Notre-Dame c’è anche un chiosco che vende souvenir legati alla cattedrale, un punto vendita che fa venire alla mente i mercanti nel tempio. Chissà come finirà con il mercanteggiare sulle vetrate.
Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
«Giorgia Meloni è il miglior primo ministro in Europa». Firmato Pier Silvio Berlusconi, amministratore delegato di Mfe (MediaForEurope, Mediaset España, Mondadori e Publitalia), che mercoledì sera ha risposto ai giornalisti in occasione degli auguri di fine anno nello studio 10 di Cologno Monzese. Temi caldi il governo, Forza Italia e l’editoria. «Meloni è apprezzata a livello internazionale», spiega, «sta facendo un lavoro sacrosanto da primo ministro, il governo sta facendo bene e lo dimostrano tutti gli indicatori economici che sono positivi, a partire dal Pil. Se ci guardiamo intorno penso che possiamo essere tutti d’accordo».
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».










