All’esame di diritto pubblico, una delle domande che possono capitare è la funzione del Consiglio superiore della magistratura. E un bravo studente ripeterebbe a pappagallo che «il Csm è un organo di governo autonomo, presieduto dal presidente della Repubblica, con lo scopo di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato». Almeno questo è quello che ci hanno insegnato a scuola. Ma la realtà è ben diversa.
Nicolò Zanon, noto costituzionalista, oggi professore di diritto costituzionale alla Statale di Milano, con un passato da giudice e poi vicepresidente della Corte costituzionale, dal luglio 2010 al settembre 2014 è stato membro del Csm, su indicazione dell’allora Popolo della libertà. E in quegli anni ne ha viste e sentite di cotte e di crude. Ospite di Atreju, il professor Zanon ha raccontato alcuni aneddoti, risaputi, ma allo stesso tempo sconcertanti. Allora come oggi, al Csm era tutto lottizzato dalle correnti. I 20 giudici togati di Magistratura indipendente, Area, UniCost e Magistratura democratica si spartivano tutto. E per tutto si intende tutto, dagli autisti alle donne delle pulizie, fino ai tavoli della buvette dove pranzavano. I dieci membri laici eletti dal Parlamento dovevano solo rassegnarsi. «Il potere delle correnti era talmente forte da coinvolgere non solo i componenti togati, ma addirittura tutto l’ambiente di funzionari che lavoravano intorno a loro», spiega Zanon alla Verità.
Ad esempio, gli autisti che portavano i consiglieri da casa al Csm erano selezionati correntiziamente, ovvero, se tu eri l’autista di Magistratura democratica o di Area, quando cambiava la consiliatura, venivi assegnato ai nuovi componenti togati delle stesse correnti. «Era poi una prassi sedersi in plenum come se fosse un parlamentino», svela Zanon: «C’erano tutti quelli delle correnti da una parte e tutti i laici dall’altra. Su pressione del capo dello Stato e di un togato eletto come indipendente, Paolo Corder, si volle cercare di spezzare questa consuetudine e iniziammo a sederci in ordine decrescente per età. Quando non c’era Napolitano, al posto del presidente sedeva il più anziano e poi, a scorrere, i più giovani. Quando c’erano delle discussioni non previste che non avevano potuto concertare prima, diventava una baraonda, si telefonavano e si consultavano con il capogruppo. Un plenum disfunzionale e disordinato».
Zanon, che si occupava di ordinamento giudiziario, ammette che «in un ambiente così non era facile lavorare. Era complicato operare in maniera indipendente, bisognava volerlo fare e per riuscirci si doveva sgomitare. Il laico era sempre in minoranza, per contare di più dovevamo essere tutti insieme ma raramente accadeva ed è chiaro che con due terzi contro un terzo la partita era difficile in partenza, vincevano sempre loro. Ogni magistrato dovrebbe essere indipendente dagli altri e ragionare con la propria testa, avere una propria autonomia; invece, lì si sentiva forte il peso delle decisioni di gruppo. All’epoca l’alleanza era tra Area e UniCost».
In particolare, Zanon riferisce di un episodio del 2011 che lo scosse particolarmente «tanto che la pressione mi salì a 190 e da allora iniziai a soffrirne». Un caso emblematico. «Ci venne assegnata la pratica per un fuori ruolo. Era una magistrata che doveva essere assegnata alla Corte internazionale ma non era gradita alle correnti. Scrissi di mio pugno una relazione favorevole. Uno dei magistrati segretari scrisse a sua volta una relazione contraria. Cosa che di solito non succedeva mai. Mi sembrò una pratica scorretta e protestai in plenum. Ci fu una specie di rivolta dei magistrati segretari. Anziché valutare individualmente i casi, i magistrati seguivano gli input della corrente del proprio gruppo. Adesso c’è un concorso, ma allora i magistrati segretari venivano scelti dalle correnti ed erano alle loro dipendenze. E i laici erano nelle mani di questi magistrati».
Nemmeno per pranzare si era indipendenti. «In cima a Palazzo dei Marescialli c’è una terrazza molto bella», racconta Zanon, «dove è stata ricavata una buvette. Lì le correnti andavano a pranzo. Ne avevano diritto solo i togati, non noi laici che invece andavamo al ristorante, pagandocelo». E anche i tavoli della buvette erano lottizzati. «I tavoli più belli, che davano sulla piazza, erano quelli di Magistratura democratica e di Area, quello di UniCost era meno prestigioso. Quello di Magistratura indipendente, in minoranza, non aveva vista sull’esterno. Il clima era questo». Persino le donne delle pulizie erano divise in correnti. «Venivano assoldate dalle correnti per fare la spesa ai magistrati», rivela divertito Zanon, «e portavano il cibo in buvette per i togati così non avevano bisogno di andare al ristorante». Anche se guadagnavano 12.000 euro al mese.
Ecco perché il referendum sulla separazione delle carriere è così importante. «Questo è il Csm che questa riforma cerca di svellere», chiosa Zanon, «con la scelta del sorteggio dei togati molto contestata e temuta dalle correnti perché così perderebbero il loro potere».
Alla faccia della indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato.
Natale amaro per John Elkann. L’erede di casa Agnelli, impegnato nella cessione dei suoi giornali, La Stampa e La Repubblica (ma non della Juventus, da lui smentita con forza), nonostante la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Torino, si è ritrovato sul capo la richiesta di imputazione coatta ordinata dal gip agli inquirenti.
A fine estate, con un sintetico comunicato stampa, la Procura aveva annunciato la fine delle indagini sull’eredità di Marella Caracciolo (deceduta nel febbraio 2019). I reati contestati erano di dichiarazione infedele (inizialmente i pm avevano contestato la più grave dichiarazione fraudolenta) e di truffa ai danni dello Stato.
I magistrati annunciavano di avere richiesto l’archiviazione integrale per le posizioni del notaio Urs Robert von Gruenigen, Lapo e Ginevra Elkann; mentre per John e per il commercialista Gianluca Ferrero l’archiviazione parziale per il delitto di dichiarazione infedele. Quindi la Procura faceva sapere di avere espresso parere favorevole alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova presentata da John Elkann e alla richiesta di patteggiamento presentata da Ferrero.
Nel medesimo comunicato gli inquirenti dichiaravano «accertati redditi non dichiarati per circa 2,485 miliardi di euro nonché una massa ereditaria non sottoposta a tassazione per un valore pari a circa 1 miliardo».
I magistrati spiegavano anche che era stato possibile «ricostruire come fittizia la residenza svizzera di Marella Caracciolo» e che i pareri favorevoli alla definizione del procedimento penale erano «conseguenti» al versamento nelle casse dell’Erario di 183 milioni di euro da parte degli indagati, somma che estingueva «integralmente il debito tributario, comprensivo di sanzioni cd interessi».
Ma la ricostruzione della Procura non ha convinto il gip Antonio Borretta che ha ordinato l’imputazione coatta per John e Ferrero.
I pm, come detto, avevano ritenuto di riqualificare l’iniziale ipotesi di «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici» prevista dall’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000 (pena da 1 anno e 6 mesi a 6 anni) nella più lieve ipotesi (articolo 4 dello stesso decreto) che incrimina la dichiarazione infedele (pena prevista da 1 a 3 anni).
Nella loro richiesta i pm avevano così spiegato i motivi della loro decisione: «Gli artifici e raggiri posti in essere da Gianluca Ferrero e John Elkann, in concorso con la defunta Marella Caracciolo, volti alla costruzione ed al “presidio” della falsa residenza estera, appaiono in via primaria finalizzati al mancato versamento dell’imposta di successione e, quindi, alla commissione della truffa ai danni dello Stato». La prova? Il memorandum rinvenuto in una cantina dello studio Ferrero, dove si leggeva: «Nel caso di decesso della Signora C dovremo dimostrare che il suo ultimo domicilio era in Svizzera. Ciò sarà rilevante essenzialmente per la determinazione di due competenze (oltre alla questione riguardo all’imposta di successione)…».
Per la Procura «tale aspetto» consentiva di «ritenere le dichiarazioni sostanzialmente “necessitate” e, quindi, connotate non tanto da autonoma “fraudolenza”, ma da mera infedeltà».
Anche perché, essendo riferite alle annualità 2018 e al 2019, «risultano, di fatto, coeve rispetto alla commissione del delitto» di truffa e per questo, secondo la Procura, a maggiore ragione, andrebbero considerate «atti connessi all’omessa presentazione della dichiarazione di successione e necessari al fine di supportare tale condotta criminosa».
Ma la clemenza dei pm non era motivata solo da questo ipotetico «assorbimento», ma anche dal «ravvedimento operoso» di John Elkann, che ha estinto «il debito tributario […] mediante versamenti per complessivi 182.695.833,53 euro».
Per la Procura, inoltre, la dichiarazione in cui si attestava falsamente la residenza svizzera di Marella avrebbe avuto come obiettivo non solo il mancato pagamento della tassa di successione, ma anche il riconoscimento della validità del patto successorio che, di fatto, escludeva dall’asse ereditario Margherita. Insomma l’evasione fiscale non sarebbe stato altro che un positivo effetto collaterale.
Il gip, nella sua ordinanza, ha stroncato questa interpretazione favorevole al principale indagato: «Non può essere condivisa, in particolare, e in primo luogo, la riqualificazione giuridica dei fatti […] sulla base del presupposto che le condotte fraudolente erano direzionate “in via primaria” al mancato versamento dell’imposta sulla successione e quindi alla realizzazione della truffa. Infatti il dolo specifico di evasione non è escluso» quando chi commette il reato «abbia perseguito oltre all’obiettivo primario […] anche un diverso fine» ha scritto Borretta. Una «finalità parallela» già riconosciuta dalla Cassazione.
Ma il gip non smette di bacchettare gli inquirenti e il presidente di Stellantis: «Nel caso di specie, anche a voler ammettere che l’obiettivo primario perseguito dagli indagati John Philip Elkann e Gianluca Ferrero fosse quello di non versare l’imposta sulla successione di Marella Caracciolo, è indubbio che essi conoscessero e condividessero, godendone, anche i conseguenti, ingenti, benefici fiscali derivanti dalla fraudolenta “esterovestizione” della residenza» di Marella, «attuata mediante artifizi e raggiri e poi “presidiata” nel tempo, e dalla conseguente presentazione di dichiarazioni dei redditi privi di elementi attivi che invece avrebbero dovuto essere indicati». Per Borretta «si trattava non di cifre di importo trascurabile, bensì di cifre ampiamente superiori alla soglia di 30.000 euro indicata nella norma incriminatrice e al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati nelle dichiarazioni».
L’esterovestizione avrebbe prodotto, sottolinea il giudice, «fra le altre cose, una consistente evasione dell’imposta sul reddito prodotto dalla predetta». «Anzi», per Borretta, «il risultato immediato e certo delle predette condotte, è stato proprio il risparmio di spesa derivante dell’evasione delle imposte, realizzato per plurime annualità, essendo incerta la data di decesso» della donna e, in più, «John Elkann aveva un interesse evidente a realizzare detta operazione, indirettamente accrescitiva del patrimonio […], essendo diretto ed unico erede (unitamente ai suoi fratelli) della nonna».
Per questo il giudice ha respinto la richiesta di archiviazione e ha ordinato ai pm «la formulazione dell’imputazione, apparendo la condotta tenuta dagli indagati penalmente rilevante».
Ha pure aggiunto che «non risultano necessarie ulteriori indagini da compiere, essendo allo stato degli atti possibile formulare una ragionevole previsione di condanna dei predetti per il reato di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000».
Infine, il gip, nel suo provvedimento, disinnesca in partenza le prevedibili obiezioni degli avvocati: «In conclusione, per completezza, deve rammentarsi che non è abnorme, né in alcun modo impugnabile, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, nel rigettare la richiesta di archiviazione, ordini al pubblico ministero di formulare l’imputazione nei confronti dell’indagato per il medesimo fatto, diversamente qualificando il titolo di reato rispetto a quello individuato dal pubblico ministero». il quale, però, convinto della propria tesi, potrebbe chiedere il proscioglimento degli imputati già in occasione della prossima udienza preliminare
Borretta ha, invece, disposto l’archiviazione completa nei confronti di Ginevra, Lapo e von Gruenigen.
Nel frattempo un altro gip, Giovanna De Maria, ha convocato una nuova udienza per l’11 febbraio per studiare la memoria presentata dai legali di John Elkann e fare degli approfondimenti sulla messa alla prova.
Lo stesso giudice ha anche rinviato al 21 gennaio l’udienza dedicata alla proposta di patteggiamento di una pena pecuniaria di circa 73.000 euro presentata dal commercialista Ferrero. Gli avvocati degli indagati hanno annunciato che depositeranno «ricorso per Cassazione» contro la decisione di Borretta, «eccependone l’abnormità». E hanno commentato: «Pur esprimendo la nostra soddisfazione per le archiviazioni disposte dal gip, la sua decisione di imporre al pm di formulare l’imputazione per John Elkann è difficile da comprendere, perché in contrasto con le richieste dei pubblici ministeri, che erano solide e ben argomentate per tutti i nostri assistiti». La conclusione dei legali è perentoria: «Ribadiamo la nostra ferma convinzione che le accuse mosse a John Elkann siano prive di qualsiasi fondamento e riaffermiamo la forte convinzione che egli abbia sempre agito correttamente e nel pieno rispetto della legge. La scelta di John Elkann di aderire a un accordo non implica alcuna ammissione di responsabilità ed è stata infatti ispirata solo dalla volontà di chiudere rapidamente una vicenda personale molto dolorosa».
Con l’acquisto della Fratelli Martini, il gruppo BF spa raddoppia quasi il giro d’affari avvicinandosi ai tre miliardi di fatturato l’anno. Il calcolo è presto fatto: il gruppo guidato dall’ad Federico Vecchioni a fine 2024 aveva messo a segno un valore della produzione di 1,5 miliardi, risultato che, se unito a quello della F.lli Martini di 1,2 miliardi, porta il totale del gruppo a 2,7 miliardi di euro. Si tratta a tutti gli effetti di una tra le più importanti operazioni nell’agroindustria negli ultimi dieci anni.
L’accordo è avvenuto attraverso la controllata BF International best fields best food limited, che ha rilevato l’azienda da Trust Girasole, Filippo Martini, Annalisa Martini e Carla Martini dando il via a una società di nuova costituzione.
La F.lli Martini rappresenta un gruppo industriale italiano con oltre 100 anni di storia e presenza integrata in tre aree di business - mangimistica, zootecnica e alimentare - che nel 2024 ha registrato un valore della produzione consolidata di circa 1,2 miliardi di euro e un margine operativo lordo consolidato di circa 72 milioni di euro. Quello dei fratelli Martini appare, insomma, un gruppo le cui competenze possono essere molto rilevanti per BF, soprattutto per quanto riguarda la presenza a livello internazionale.
Il prezzo di acquisto previsto per l’operazione è pari a 220 milioni di euro e l’acquisizione verrà realizzata tramite una holding veicolo (Holdco) che sarà dotata delle risorse necessarie con una struttura mista costituita da equity e debito. In particolare, BFI e alcuni soci reinvestiranno parte del corrispettivo incassato (20 milioni di euro), al fine di detenere una partecipazione di circa il 15% del capitale sociale della nuova realtà.
Gli altri venditori concederanno un finanziamento di 10 milioni di euro, mentre il residuo importo di 190 milioni di euro sarà devoluto alla nuova realtà per 110 milioni di euro da BFI, tramite ricorso a risorse proprie, e per 80 milioni tramite finanziamento da parte di alcune banche.
Sotto il profilo contrattuale, l’accordo prevede il rilascio, da parte dei venditori a favore di BFI e quindi della nuova società, di un set di dichiarazioni e garanzie e di obblighi di indennizzo usuali per operazioni di questo genere. È inoltre prevista la sottoscrizione di una polizza assicurativa a servizio dell’operazione, con funzione di copertura dei rischi tipici di accordi come questo.
Alla data di esecuzione è prevista anche la sottoscrizione di un patto parasociale tra i soci della società di nuova costituzione, destinato a disciplinare diritti e obblighi reciproci, con particolare riferimento alle regole di governance e alla circolazione delle partecipazioni, in linea con la prassi di mercato per operazioni analoghe. Il patto include anche un impegno di lock-up per una durata di cinque anni (un’intesa che blocca la vendita di azioni o quote societarie per un periodo di tempo stabilito).
Inoltre, sono previsti alcuni poteri di veto in capo ai soci re-investitori, la facoltà per questi ultimi di nominare due membri del consiglio di amministrazione, un sindaco effettivo e un sindaco supplente, nonché opzioni di put e call per l’eventuale uscita di questi ultimi dal capitale della nuova società. Queste opzioni sono esercitabili rispettivamente a partire dal 2031 e dal 2032, sulla base di meccanismi di valorizzazione della partecipazione che tengono conto anche di specifiche caratteristiche del gruppo.
Per assicurare continuità gestionale è previsto che Antonio Montanari e Filippo Martini mantengano ruoli apicali all’interno del gruppo Martini. Il perfezionamento dell’operazione è inoltre subordinato a condizioni sospensive, tra cui l’esito positivo delle procedure legate alla golden power e al via libera dell’Antitrust, la sottoscrizione del contratto di finanziamento tra Holdco e gli istituti di credito per il reperimento del supporto finanziario residuo. Al momento si prevede che l’operazione possa diventare operativa entro maggio 2026.
L’intesa si inserisce nella strategia di crescita e integrazione verticale del Gruppo BF, con l’obiettivo di sviluppare modelli produttivi sostenibili, tracciabili e ad alto valore aggiunto in grado di contribuire, anche in ambito internazionale, alla sicurezza alimentare. «Il Gruppo BF intende presidiare la filiera delle proteine animali considerando la stessa strategica per la crescita del valore economico e sociale dei contesti produttivi di suo interesse», ha detto Federico Vecchioni, presidente esecutivo di BF e ad di BF International.
«Di fronte al rispetto delle norme fondamentali dello Stato di diritto», il presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee) non è «neutrale». Così Luis Argüello, capo dei vescovi e arcivescovo di Valladolid, ha replicato alla protesta formale del ministro della Presidenza e della Giustizia, Félix Bolaños, che in una lettera lo esortava: «Vi chiedo espressamente di astenervi dal violare la vostra neutralità politica e di agire con rispetto per la democrazia e il governo».
Argüello sarebbe colpevole di aver dichiarato domenica, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Vanguardia, che la situazione di grave impasse del governo di Pedro Sánchez va risolta con un «voto di fiducia o una mozione di sfiducia, ovvero dando voce al popolo. In altre parole, ciò che prevede la Costituzione».
Già lo stesso giorno il premier, durante un comizio a Cáceres, aveva criticato l’esternazione del presidente della Cee esortandolo a «rispettare il risultato delle elezioni anche se non gli piace», perché «il periodo in cui i vescovi si sono intromessi nella politica ha posto fine alla democrazia». Poi è arrivata la lettera di Bolaños che ha accusato il monsignore di aver violato la neutralità chiedendo la fine della legislatura.
Il numero uno dei vescovi cattolici l’ha detto chiaro, rispondendo con un post su X: non può essere neutrale. Sia quando si tratta di rispetto delle norme fondamentali dello Stato di diritto, sia quando in gioco ci sono «il rispetto della vita e della sua dignità, la comprensione e il sostegno alle famiglie nell’alloggio e nell’istruzione, l’accoglienza degli immigrati». Su quest’ultimo punto, monsignore aveva precisato che «è fondamentale combattere le cause profonde delle migrazioni, siano esse dovute a guerre o a fattori economici. La Chiesa è anche chiara sul fatto che la tratta di esseri umani è inaccettabile».
È la seconda volta, e nel giro di pochi mesi, che Argüello invoca dimissioni del governo. Lo scorso luglio aveva chiesto elezioni generali immediate in Spagna. Adesso, dice, «la situazione è ancora più in stallo». Ricorda che «nel corso della storia della Conferenza, ci sono stati pronunciamenti forti sul terrorismo, sullo stato morale della società spagnola, sull’aborto, sulla famiglia, sul diritto all’istruzione... E alcuni particolarmente controversi sulla questione della nazionalità e delle nazionalità. Il momento attuale è unico, con una legislatura che opera senza bilancio».
Con l’esecutivo travolto da numerose inchieste giudiziarie e due ex pezzi grossi del Psoe, Santos Cerdán e José Luis Ábalos, già in carcere accusati di una serie di reati di corruzione e di criminalità organizzata; mentre si indaga su finanziamenti irregolari all’interno del Partito socialista e la scorsa settimana la Guardia Civil ha fatto diversi controlli nei ministeri per presunte irregolarità nei contratti della Holding statale spagnola (Sepi); con la consorte Begoña Gómez accusata di cinque reati di corruzione (nell’aprile 2024 Sánchez annunciò che si sarebbe preso una pausa di cinque giorni per riflettere su possibili dimissioni, che alla fine non diede), ieri nella relazione di fine anno il premier ha dichiarato di non avere motivo di dimettersi.
Nella conferenza stampa alla Moncloa ha nuovamente escluso elezioni anticipate e ha promesso una risposta «forte» contro le molestie sessuali e la corruzione di cui sono accusati leader del Psoe. Secondo la vicesegretaria generale per la rigenerazione istituzionale del Pp, Cuca Gamarra, il premier «sta portando la Spagna sull’orlo del baratro». Il presidente di Vox, Santiago Abascal, ha chiesto la presentazione di una «mozione di sfiducia» e la successiva convocazione di «elezioni immediate».
Clamorosamente, il settimanale l’Espresso ha invece definito Pedro Sánchez «Persona dell’anno 2025», dedicandogli la prima pagina e provocando una valanga di commenti sarcastici sui social spagnoli. «L’uomo più accusato di corruzione dell’anno», lo sfottono, chiedendo quanto avrà pagato il governo di Madrid per avere quella copertina. Qualcuno ha giocato con le parole, «Next-presso», preso in spagnolo indica il carcerato, rilanciando un’immagine del premier che sorseggia un caffè in divisa da galeotto.
Il ministro Bolaños suggerisce che il presidente della Cee «preferirebbe che i suoi interlocutori fossero forze politiche diverse», riferendosi al Partito popolare e a Vox, ma la spiegazione è forse più semplice. In un clima sempre più sfiduciato, la voce del capo dei vescovi ha voluto farsi sentire.
«Negli ultimi mesi, i rapporti con il governo sono stati caratterizzati solo da due questioni: la Valle dei Caduti e il risarcimento per le vittime della pedofilia clericale. Con nostro grande rammarico, non abbiamo affrontato altre questioni cruciali, come l’istruzione, che è costantemente messa in discussione e richiede un accordo nazionale […] Ci sorprende che oggi ci siano giovani che non guardano alle democrazie liberali come modello. Chiediamoci perché», ha detto Argüello.










