- Nuova sberla dei giudici al governo. Shahin, che elogiava le stragi del 7 ottobre, resterà in Italia malgrado il decreto di espulsione del Viminale. La Corte di Caltanissetta si appella alla richiesta d’asilo del predicatore, coinvolto nello scandalo dei fondi ad Hamas.
- Mohammad Hannoun rilascia solo dichiarazioni spontanee. Sandro Gozi: Schlein chiarisca i suoi legami.
Lo speciale contiene due articoli.
La decisione della Corte d’appello di Caltanissetta rappresenta un nuovo stop per il governo sul terreno della sicurezza e dell’immigrazione. I giudici hanno infatti confermato che l’imam torinese Mohamed Shahin, in quanto richiedente asilo, può restare sul territorio italiano in attesa che la sua domanda di protezione internazionale venga esaminata. Una pronuncia che non cancella formalmente il decreto di espulsione firmato dal ministero dell’Interno, ma che ne sospende l’efficacia, impedendone l’esecuzione fino alla conclusione della procedura. Si tratta di una conferma di quanto già stabilito in primo grado dal tribunale di Caltanissetta, contro cui l’Avvocatura dello Stato aveva presentato ricorso. Anche in appello, tuttavia, la linea dell’esecutivo si è scontrata con la valutazione dei giudici, che hanno ritenuto legittima la permanenza di Shahin in Italia in virtù della richiesta di asilo presentata dopo l’arresto. Un esito che, sul piano politico, viene letto come l’ennesimo schiaffo al Viminale, impegnato da mesi a difendere un provvedimento adottato esclusivamente per ragioni di sicurezza nazionale.
La vicenda affonda le sue radici nello scorso novembre, quando il ministero dell’Interno aveva emesso un decreto di espulsione nei confronti dell’imam, motivandolo con la presenza di elementi ritenuti indicativi di una radicalizzazione ideologica. Al centro del dossier vi erano anche alcune dichiarazioni sulla strage compiuta dai miliziani di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, considerate dalle autorità incompatibili con la permanenza sul territorio nazionale. In seguito al decreto, Mohamed Shahin era stato trasferito nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta, in attesa dell’esecuzione dell’espulsione. Ma già in quella fase era arrivato un primo, significativo stop per il governo: la Corte d’appello di Torino aveva infatti disposto la sua liberazione, ritenendo che non sussistessero i presupposti giuridici per il trattenimento nel Cpr. Una decisione che aveva di fatto indebolito l’impianto del provvedimento ministeriale, pur senza metterlo formalmente in discussione.
Ora, con la pronuncia della Corte d’appello di Caltanissetta, l’azione dell’esecutivo subisce un ulteriore rallentamento. I giudici non entrano nel merito del decreto di espulsione, ma ribadiscono che la presentazione di una domanda di protezione internazionale produce effetti sospensivi, imponendo allo Stato di attendere l’esito della procedura prima di procedere con l’allontanamento. Una distinzione tecnica, ma politicamente pesante, perché di fatto congela l’iniziativa del governo. Sul piano amministrativo resta aperto un altro fronte cruciale: quello relativo alla revoca del permesso di soggiorno di Shahin. Su questo aspetto dovrà pronunciarsi il Tar del Lazio nel mese di gennaio. Anche in questo caso, però, i tempi della giustizia amministrativa si sovrappongono alle esigenze di sicurezza rivendicate dal Viminale, alimentando la frizione tra poteri dello Stato.
A complicare ulteriormente il quadro è l’emersione del nome di Mohamed Shahin negli atti dell’Operazione Domino, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di una presunta rete di raccolta e trasferimento di fondi destinati a Hamas. Nell’ordinanza firmata dal gip Silvia Carpantini viene ricostruita l’attività della cosiddetta cellula di Mohammed Hannoun, attiva anche in Italia. Tra i contatti citati compare più volte - pur senza risultare indagato - proprio l’imam di Torino. Il suo nome emerge in diverse conversazioni intercettate, talvolta con errori di battitura, ma comunque riconducibili a Shahin. Dagli atti risulta che l’imam intrattenesse rapporti diretti con uno degli arrestati, l’uomo accusato di raccogliere fondi a Torino per destinarli a Gaza. Un elemento che rafforza, sul piano politico, la convinzione dell’esecutivo di trovarsi di fronte a un profilo altamente problematico, anche in assenza di contestazioni penali formali. Non sorprende, quindi, la dura reazione di Fratelli d’Italia. La deputata Augusta Montaruli, che da tempo segue il caso, parla apertamente di una distorsione del sistema. «È incredibile - ha dichiarato - che dopo anni di permanenza in Italia emerga una richiesta di protezione internazionale solo a seguito di un decreto di espulsione. Ma ancora più incredibile è che questo strumento diventi un modo per bloccare l’allontanamento, a fronte di elementi che, al di là delle eventuali responsabilità penali, si aggiungono ad altri che già motivavano un’espulsione preventiva per ragioni di sicurezza nazionale». Il caso di Mohammed Shahin si conferma così come uno dei dossier più sensibili per il governo sul fronte dell’immigrazione e della prevenzione. Non un annullamento formale delle decisioni del Viminale, ma una serie di incredibili stop giudiziari che ne paralizzano l’efficacia, alimentando lo scontro politico e lasciando aperta una partita che, tra tribunali ordinari, giustizia amministrativa e procedure di asilo, è tutt’altro che chiusa e che mette a repentaglio la sicurezza nazionale.
Hannoun non risponde alle domande. A sinistra presentano il conto a Elly
La notte di Mohammad Hannoun nel carcere di Marassi ha già una scadenza. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha deciso che il carcere genovese non è il posto giusto per un uomo accusato di terrorismo. E così, a breve, l’architetto palestinese di 63 anni, indicato dagli inquirenti come figura apicale della cellula italiana di Hamas, verrà trasferito. A Ferrara o ad Alessandria, entrambe strutture dotate di sezioni ad «alta sorveglianza», quelle riservate ai detenuti accusati di terrorismo o eversione. Sezioni speciali. Sorveglianza rafforzata. Isolamento più rigido. «Si tratta di una decisione amministrativa che non dipende né dalla giudice né dalla Procura», spiegano i suoi difensori, Fabio Sommovigo ed Emanuele Tambuscio. Hannoun, dal momento dell’arresto, è stato posto in isolamento. Sabato le manette, poi Marassi. E ieri mattina alle 9 in punto l’interrogatorio di garanzia davanti al gip che l’ha privato della libertà: Silvia Carpanini. E la scelta dell’indagato è stata netta. Hannoun si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Gli abbiamo consigliato noi di avvalersi», spiegano ancora i legali, «perché non ha avuto modo ancora di leggere gli atti». Ma non è stato un muro totale. Perché Hannoun, pur senza rispondere alle domande, ha rilasciato dichiarazioni spontanee. Ha parlato per circa mezz’ora. Ha rivendicato la sua storia, la sua attività di raccolta fondi «per iniziative precise di beneficenza a favore del popolo palestinese in tutte le sedi, cioè Gaza, la Cisgiordania e i campi profughi, attività che ha cominciato a svolgere negli anni Novanta». Hannoun ha confermato la finalità umanitaria del suo agire e ha provato a smontare la pietra angolare dell’accusa: ha negato con forza di avere finanziato direttamente o indirettamente Hamas. Poi ha spiegato come funzionava la raccolta fondi e la loro distribuzione prima e dopo il 7 ottobre 2023. Da una parte l’accusa, che parla di oltre 7 milioni di euro transitati attraverso associazioni benefiche fondate e guidate da Hannoun, soldi che secondo gli investigatori avrebbero alimentato Hamas. Dall’altra la versione dell’indagato, che insiste su un’attività di beneficenza cominciata 30 anni fa, su canali, modalità e contesti che, a suo dire, nulla avrebbero a che fare con il finanziamento del terrorismo. I suoi avvocati valutano i prossimi passi, ovvero «se presentare una qualche istanza di attenuazione della misura o se proporre ricorso al tribunale del Riesame». Sulla vicenda piove da sinistra una bomba su Pd. A lanciarla è l’ex dem Sandro Gozi, eurodeputato dei centristi di Renew Europe (ma è stato eletto con il partito di Emmanuel Macron) e segretario generale del Partito democratico europeo, in relazione alle manifestazioni pro Pal: «La sinistra deve fare i conti con una realtà scomoda. C’è imbarazzo, legato a una sottovalutazione e a un’ingenuità, da parte dei propri leader. Questo mix deve essere subito superato da Elly Schlein, altrimenti non puoi guidare il Pd». La ramanzina di Gozi prosegue: «Parliamo di posizioni politiche molto nette, come quelle di chi ha definito Hamas un movimento di resistenza o che ha detto che si possono uccidere tranquillamente gli ebrei, che non potevano essere mescolate con l’entusiasmo di tanti giovani e non che, in buona fede, hanno partecipato alle iniziative pro Pal. Movimenti interi sono stati strumentalizzati». L’eurodeputato ha poi criticato duramente anche il comportamento di alcuni amministratori locali dem: «Quei sindaci, che sono andati a quelle manifestazioni, sono stati davvero degli sprovveduti a dare, poi la cittadinanza onoraria a un personaggio come la Albanese». Il riferimento è a Francesca Albanese, la giurista relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. «Anche Bonelli (Angelo, portavoce di Alleanza dei Verdi e Sinistra, ndr), dopo le ultime rivelazioni, ha dovuto scaricarla».
Lo speciale contiene tre articoli
Non si arresta la bufera che sta travolgendo Alfonso Signorini. Il giornalista e conduttore televisivo è indagato dalla Procura di Milano per violenza sessuale ed estorsione sulla base di un esposto presentato nei giorni scorsi dall’ex concorrente del Grande fratello Antonio Medugno.
La notizia, che nel tardo pomeriggio di ieri è stata confermata da fonti investigative, ha agitato il mondo dello spettacolo e non solo. Il «sistema Gf» potrebbe trasformarsi in uno tsunami. L’iscrizione nel registro degli indagati di Signorini è tecnicamente considerata dagli inquirenti «un atto dovuto» per cercare di fare luce su quanto raccontato da Medugno, ex concorrente del noto reality show. Lo scorso 24 dicembre, il giovane modello ha presentato una denuncia contro Signorini per violenza sessuale ed estorsione. La denuncia è stata poi resa nota da Fabrizio Corona in una puntata di Falsissimo, il programma di gossip dell’ex agente fotografico che ha sollevato lo scandalo. È stato lo stesso Corona, nelle scorse settimane, a spiegare come si poteva diventare un concorrente del Gf. A suo dire, l’accesso al Grande fratello sarebbe stato «facilitato» dal giornalista (che è stato conduttore del reality per diverse edizioni) in cambio di «favori sessuali». A dimostrazione di ciò, Corona aveva anche mostrato vari screenshot di scambi di messaggi con alcuni ex partecipanti del Grande fratello. Dopo le accuse lanciate dall’ex paparazzo, Signorini ha presentato una denuncia da cui è scaturita un’inchiesta che vede l’ex «re dei paparazzi» indagato per diffusione di immagini a contenuto sessualmente esplicito.
Ma la vicenda non è finita qui. Signorini si è preso prima una pausa dai social, eliminando i suoi profili, e poi due giorni fa ha annunciato di «autosospendersi» da Mediaset. L’azienda ne ha preso atto. Ma da ieri il «caso» si allarga: Signorini è indagato e denunciato da un ex gieffino. Questo fascicolo è adesso affidato al pm Letizia Mannella. «Abbiamo quanto necessario per dimostrare che quella denunciata è una ricostruzione dei fatti balorda, come lo sono gli autori della denuncia», ha spiegato all’Agi l’avvocato Domenico Aiello, difensore di Alfonso Signorini. «Gli autori della denuncia», ha aggiunto il legale, «sono disposti a tutto, anche a rovinare la vita delle persone, per guadagnare milioni di euro. È quella che definisco l’etica della monnezza».
Sulla vicenda è intervenuto pure l’avvocato Giuseppe Pipitella, che assieme all’avvocato Cristina Morrone assiste l’ex concorrente del Grande fratello Antonio Medugno: «L’apertura del fascicolo di indagine a carico del conduttore televisivo Alfonso Signorini è un atto dovuto, ma questo non riduce l’importanza di questo atto e la necessità di fare chiarezza su una vicenda potenzialmente destabilizzante per buona parte del sistema mediatico italiano». «Abbiamo massima fiducia nella magistratura», ha aggiunto l’avvocato Pipitella, «che ringraziamo. Siamo contenti che l’atto dovuto sia stato messo in atto così rapidamente».
Fabrizio Corona ha subito detto la sua dopo la notizia dell’autosospensione da Mediaset di Signorini e ha sbottato in un video pubblicato sui suoi canali social: «Che strano Paese che è l’Italia: quando suona l’allarme non vanno a vedere se c’è qualcuno in casa, ma corrono a spegnere l’allarme. Vergogna! E sapete perché? Perché l’allarme sono io». «L’allarme non si spegne, tornerò a gennaio e vi dimostrerò che è vero…», ha assicurato Corona. Che ha voluto respingere al mittente le accuse di chi gli diceva che «si è inventato tutto». «Ho tante di quelle chat ancora da farvi leggere, ho tante di quelle prove, ho tanti di quei documenti che vi faranno tremare», è la «bomba» anticipata da Corona. La bufera che ha travolto Signorini e il Gf non tende a placarsi. Mentre la vicenda prosegue sul piano giudiziario, ci si interroga anche sul futuro del Grande fratello vip. Dopo la decisione del conduttore di autosospendersi, si apre ufficialmente la corsa alla successione per uno dei programmi di punta del Biscione, il cui ritorno in onda è previsto per marzo 2026. La partenza del programma non sembra al momento in discussione, si è ufficialmente aperto il toto-nomi per il nuovo conduttore.
Secondo le prime indiscrezioni, sarebbero due i profili favoriti. Il primo è quello di Ilary Blasi, che rappresenterebbe un ritorno alle origini avendo lei condotto il programma con i vip dal 2016 al 2018. Il secondo nome forte è quello di Michelle Hunziker, volto di punta della rete e gradita sia al pubblico sia ai vertici. Ma la rosa dei candidati è più ampia. Dall’azienda amministrata da Piersilvio Berlusconi, però, non è arrivata al momento nessuna smentita e nessuna conferma. Alfonso Signorini, due giorni fa, attraverso i suoi legali, aveva spiegato la decisione di autosospendersi in «via cautelativa da ogni suo impegno editoriale in corso con Mediaset». Il gruppo di Cologno Monzese ne ha preso subito atto ribadendo il «dovere di tutelare l’integrità delle proprie attività e dei prodotti editoriali».
Alfonso, una vita in mezzo ai vip tra foto, moda, scoop e inchieste
Poliedrico è dir poco. Melomane e regista di opera lirica, raffinato uomo di lettere, ma anche re del gossip e adesso pure indagato per violenza sessuale ed estorsione. Alfonso Signorini è questo e molto altro. Nato nella periferia di Milano, nel quartiere Affori, il 7 aprile 1964. Figlio della media borghesia (papà impiegato e mamma casalinga), ha una solida formazione scolastica.
Diploma al Liceo Classico Omero, laurea in Lettere classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore, diploma di pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi. Ha ottenuto anche una laurea in Filologia medievale e umanistica, con una tesi su Lorenzo Valla, filologo e umanista del 1400. Terminati gli studi inizia a insegnare italiano, latino, greco, storia e geografia al liceo classico dell’Istituto Leone XIII, a Milano. Più tardi, scriverà libri apprezzati e di successo tra cui una ricca biografia di Maria Callas.
All’epoca era anche fidanzato in casa con una ragazza. Ma superati i 30 anni decide di cambiare radicalmente la propria vita e di fare coming out, senza, però, dare un peso politico alla sua omosessualità. Comincia a fare il giornalista alla Provincia di Como e poi entra in Mondadori, dove scala tutti i gradi del cursus honorum all’interno del settimanale Chi, dove diventa condirettore di Silvana Giacobini. Ma tra i due qualcosa si rompe e Signorini viene allontanato. Nel frattempo è entrato nelle grazie di Carlo Rossella, direttore di Panorama, di Piero Chiambretti (che lo ha ingaggiato, nel 2002, come ospite fisso, in veste di esperto di costume e gossip, nella sua trasmissione Chiambretti c’è) e di Lele Mora, che lo ha inserito nella sua scuderia di personaggi televisivi, uno dei suoi «talent», la sua faccia sorridente compare sul sito dell’agenzia LM Management tra Costantino Vitagliano e Daniele Interrante. Signorini scrive per Panorama e la sua consacrazione è proprio una copertina insieme a Chiambretti, entrambi vestiti da bambini (il titolo è «Rimbambini»). Signorini, da oscuro collaboratore di giornali diventa un personaggio da prima pagina. E la Mondadori decide di puntare su di lui. Pensa di affiancarlo in veste di condirettore anche a Umberto Brindani, chiamato a sostituire la Giacobini alla guida di Chi. Alla fine Signorini si deve accontentare dei gradi di vicedirettore e deve accettare di farsi cancellare dall’elenco dei «talent» di Mora.
Per un giornalista essere associato a un personaggio chiacchierato come l’ex parrucchiere di Bagnolo di Po non è un gran biglietto da visita. Ma c’è un dato che accompagna la biografia di Signorini come una costante: il suo nome torna attorno ad alcuni dei più seguiti e delicati meccanismi del mondo vip. Il primo grande snodo è Vallettopoli, l’inchiesta coordinata nel 2007 a Potenza dal pm Henry John Woodcock, che scoperchiò il sistema delle foto, dei favori e delle mediazioni attorno a personaggi pubblici, politici e dello spettacolo. In quel contesto, durante gli interrogatori dei fotografi delle agenzie di stampa, emerse anche il nome del direttore di Chi. La spiegazione fornita fotografava un ruolo centrale: Chi, infatti, secondo i fotografi era l’approdo. Signorini, chiamato in causa come direttore della testata di riferimento del gossip italiano, rispose con una linea netta e invariata nel tempo, parlando di «assoluta estraneità» e di «totale trasparenza e correttezza nello svolgimento della sua attività professionale». Vallettopoli, però, non rimase un caso isolato. Negli anni successivi, a Milano, il pm Frank Di Maio indagò su altri filoni legati al mercato delle immagini dei vip, alle foto ritirate, alle mediazioni tra fotografi, agenzie e settimanali. Gli investigatori non volevano più sapere solo dei «malamente» che provavano a ricattare i vip, ma volevano salire di livello e scoprire chi offriva loro una sponda, accettando di acquistare servizi fotografici compromettenti e di metterli in un cassetto. E cominciarono a puntare sulle figure chiave di quel mondo: i direttori delle riviste a cui tutti si rivolgevano quando c’era uno scatto sensibile o una foto che poteva danneggiare le carriere. Ma il pm si ammalò e morì, portandosi dietro i segreti di quell’inchiesta.
Ma il nome di Signorini ricomparve con il caso di Piero Marrazzo, il governatore dem del Lazio finito in una brutta storia di trans e cocaina.
Nel 2009 i titolari di un’agenzia fotografica cercarono di vendere il video in cui il politico era in compagnia della escort Natalie. Signorini, in Tribunale, spiegò che non era pubblicabile, perché «era una chiara violazione della privacy». E, così, decise di informare il suo editore. Lo stesso accadde con Silvio Sircana (allora portavoce del premier Romano Prodi immortalato mentre parla con un trans in una strada di Roma): «Informai i vertici aziendali, anche se in quel caso non era in gioco la violazione della privacy ma quella della sfera sessuale». Di quel video, spiegò Signorini, conservò «una copia nel pc», che poi consegnò ai carabinieri. Emerge una dimestichezza totale non solo con la dimensione dei vip, ma anche con i risvolti politici.
Dentro questa traiettoria, fatta di carta patinata, televisione generalista e costume, a un certo punto compare anche un racconto antagonista. È quello di Fabrizio Corona, che, con La Verità, da Dubai, dove è in vacanza, rivendica il ruolo di detonatore del caso e che, parlando di Signorini, proprio a proposito dell’inchiesta di Woodcock usa toni e parole senza mediazioni. Costruisce subito un parallelismo con il suo passato, rivendicando una differenza numerica e morale: «Io su 10.000 servizi fotografici ne ho ritirati otto in dieci anni. Lui ne avrà ritirati 500». Ma l’amarcord non è finito: «Ora è come a Potenza. All’epoca, nel mio caso, tutti i testimoni riferirono che non era un’estorsione, che le foto ritirate e non pubblicate venivano percepite come un favore, ma per i giudici era un’estorsione». E parte con un’equazione mediatica: «Prendiamo il caso Signorini: è uguale. Probabilmente molti testimoni diranno che non era violenza sessuale, ma il punto è che in cambio andavano al Grande fratello, bum, bum, bum». Poi riflette: «Qua c’è uno snodo sessuale». E aggiunge: «Lo agganci dal nulla (un aspirante, ndr), esponi il tuo potere, lo chiami, lo seduci, la butti sul sesso e poi dici: “Vuoi fare il Grande fratello?”. È il Me too italiano, l’ho detto». Corona, nel suo format Falsissimo, riconosce a Signorini di aver «fatto una carriera stratosferica». Ricordando, però, che «era seduto nell’ultimo posto a tavola, nell’angolino, a casa di Lele Mora. Me lo ricordo come se fosse ieri quando è arrivato Bobo Vieri che lo ha attaccato al muro perché faceva lo scrivano delle notiziole. Poi di colpo, attraverso una serie di cose, diventa direttore di Chi, comincia a scrivere libri e a condurre programmi, e comincia a diventare il capo della Bibbia del gossip, togliendo il posto a tutte le conduttrici». E a questo punto lo imita: «Beh, vabbeh, adoro». Un altro che ha conosciuto bene «Alfonsina la pazza» (copyright di Dagospia) è Gabriele Parpiglia, per anni braccio destro di Signorini a Chi. È Parpiglia a restituire, con parole personali, un’immagine filtrata dalla delusione. Risponde da New York: «Sto per entrare a teatro, ma in questi giorni ho dedicato ad Alfonso diversi pensieri». Uno è questo: «Se fossi ancora in rapporti con Alfonso, so che mi direbbe: “Parpi, per carità, ci mancava solo il Codacons (autore di un esposto dopo le rivelazioni di Falsissimo, ndr). Tu li conosci? Chiamali! Capisci!”. Perché in fondo è sempre stato così, la mano l’ho data continuamente io. Ma la sua, di mano, non l’ho mai trovata». Il racconto di Parpiglia si fa introspettivo e cupo: «In aereo ho fatto una gag dedicata a tutti quelli che sono riapparsi in questo periodo, desiderosi di farmi sentire il loro sostegno. Ma ora mi chiedo dov’erano quando in un anno solo ho perso Maurizio Costanzo, Bruganelli (Sonia, ex moglie di Paolo Bonolis del quale Parpiglia è stato un collaboratore, ndr) e Signorini?». Il racconto diventa ancora più crudo: «Dov’erano quando ho pensato davvero di farla finita? Dov’erano quando anche mia madre si è ridotta a mandare una mail a Signorini perché mi vedeva colpito sia nella mente che nel fisico, mentre annaspavo? Secondo voi il Sommo (Signorini, ndr) ha risposto a mia madre? Manco per idea e solo per questo non lo perdonerò mai e non proverò nemmeno pena». Il giudizio finale è netto, personale, senza appello: «Alfonso ha perso e sta male. Lo conosco. Non lotta, perché lui in guerra sarebbe l’ultimo dei soldati che si farebbe sparare. Preferirebbe nascondersi dietro un collega per sacrificarlo al posto suo». E conclude: «Gli mancherà la lucina rossa (quella della regia televisiva, ndr). Pazienza. Il mondo va avanti».
E anche le inchieste.
Si apre uno scorcio anche sul Me too gay?
Ieri è stata una grande giornata per il mondo arcobaleno: può finalmente dire di avere raggiunto la piena eguaglianza di diritti con gli eterosessuali. Tutto grazie alla vicenda che coinvolge, suo malgrado, Alfonso Signorini, indagato dalla Procura di Milano per estorsione e violenza sessuale.
Anche l’universo Lgbt, con qualche anno di ritardo, colma dunque una lacuna: ha il suo Me too, il suo scandalo catodico-sessuale a base di molestie. Il primo a spingere su questo tema è stato il gran maestro di cerimonie di questo grottesco circo del pettegolezzo esondato nelle aule di giustizia, ovvero Fabrizio Corona. Nel suo podcast Falsissimo ha indossato le vesti del giustiziere delle notti brave e ha sventolato sotto il naso degli italiani (che a milioni si sono avventati sul banchetto) risme di carta contenenti i messaggini inviati da Signorini medesimo ad alcuni giovanotti gonfi di muscoli e ambizioni. Più o meno si tratta dei peccati di cui fu chiesto conto ad Harvey Weinstein, il potentissimo produttore hollywoodiano che pretendeva qualche gentilezza a sfondo sessuale per favorire la carriera di questa o quella aspirante diva.
Qui, ovviamente, è tutto in tono minore e leggermente più pecoreccio. Parliamo di bellimbusti ossessionati dalla famosità e pronti a tutto pur di arrivare alla agognata meta, cioè la vetrina del Grande fratello. Ecco l’accusa terribile: Signorini offriva un viatico per la fugace e tristanzuola gloria del reality, ma solo a chi si mostrava generoso con lui. Molto generoso. A quanto pare, qualcuno ha ceduto alle lusinghe della fama e alle voglie dell’imperatore Alfonso, eterosessuali compresi. E qui precipitiamo di nuovo nel profondo interrogativo già spalancato da Weinstein: si tratta di violenze sessuali vere e proprie, cose anche solo vagamente paragonabili agli stupri?
Si tratta realmente di vessazioni intollerabili ai danni di povere vittime del poteraccio di turno? A essere un po’ cinici, viene da pensare che qui diritti, dignità e altre parolone simili c’entrino poco. Sono, piuttosto, un bel vestito con cui agghindare un gustosissimo caso di guardonismo per le masse, uno spettacolo che Corona ha allestito con la perizia di un guru e la crudeltà di un gladiatore romano. Insomma, entrare al Grande Fratello non è mica un diritto umano o un obbligo sanitario. Se qualcuno per esibirsi in quella casa arriva al punto di offrire le proprie grazie, si potrebbe anche pensare che la pena stia nella colpa.
È il violento mercato della celebrità, la legge terribile del successo mondano. Per enormi obiettivi ci si vende l’anima, per più basse aspettative bastano i lombi. D’altra parte, però, non si può trascurare l’ipocrisia sanguinolenta del piccolo schermo, dentro cui si fanno dei gran discorsi e si tessono arazzi di morale, mentre nel privato ci si dedica a ben altre attività in costume da infermiera (già, nemmeno questo ci è stato risparmiato, tra le varie immagini di Signorini sventolate da Corona).
Starà ovviamente ai giudici stabilire se si tratti davvero di violenze e pesanti reati o solo della antichissima storia del potente che fa il potente e dei cacciatori di celebrità che fanno tutto il resto, anche l’indicibile, per saziare la fame che li divora. A noi non resta che stare a guardare, e raccontare quel che accadrà, apprezzando la mortifera ironia della sorte: nel Grande Fratello si esibisce l’intimità a ogni livello, e forse è persino giusto che proprio da quel feticcio televisivo parta la miccia di una deflagrazione basata sullo sputtanamento totale, sul disvelamento di ogni sporco segreto. Siamo nel Me too arcobaleno, anche se dentro ci sono pure volenterosi eterosessuali, e sembra di stare in un romanzo di James Ellroy, una versione con pummarola di American Tabloid, fra paparazzi spietati e celebrità piccine che si divorano a vicenda. Corona fa il regista, è l’Howard Hughes che ci meritiamo, pronto a illuminare ogni luogo oscuro con le sue telecamere e macchine fotografiche.
Non lo dimentichiamo: la crociata puritana del Me too si è conclusa molto male, con pochi condannati e troppi linciati, e una scorpacciata di voyeurismo per il mondo intero. Ci auguriamo solo che l’orgia spionistica non si ripeta nello stesso modo, e notiamo che stavolta la stampa è stata più reticente del solito. Non ci sono le indignazioni e le plateali lamentazioni sentite in occasione della precedente buriana scopereccia, chissà perché. In compenso c’è il medesimo filo conduttore, che non è il sesso bensì il potere. Del corpo, amara realtà, si fa gran commercio. E la denuncia delle molestie - di questo tipo di molestie - serve a terremotare equilibri e a triturare i nemici. Molte arrampicatrici fecero strada sgominando i maschi con il me too originale.
La cannonata sparata a Signorini è come uno tsunami nel brillante universo parallelo della tv e nei corridoi di Mediaset. Non sesso, potere. Beati gli uomini saggi che sapranno evitare di mescolarli.
Con 216 sì e 126 voti contrari la Camera ha approvato in via definitiva la legge di Bilancio. Una manovra da 22,5 miliardi, «costruita in un contesto complesso, che concentra le limitate risorse a disposizione su alcune priorità fondamentali: famiglie, lavoro, imprese e sanità» ha commentato la premier Giorgia Meloni sottolineando che il governo prosegue «nel percorso di riduzione dell’Irpef per il ceto medio, nel sostegno alla natalità e al lavoro, nel rafforzamento della sanità pubblica e nel supporto alle imprese».
Interventi resi possibili soprattutto il taglio delle aliquote dell’Irpef, grazie al prelievo su banche e assicurazioni. Per le banche, infatti, è stato aumentato del 2% l’Irap, con un gettito di circa 1,3 miliardi di euro. Inoltre, è stata ulteriormente ridotta la deducibilità sulle perdite pregresse: le percentuali scendono dal 43% al 35% per il 2026 e dal 54% al 42% per il 2027. In questo caso, le risorse garantite sono circa 600 milioni di euro in due anni. Irap più pesante anche per le assicurazioni, per le quali, in aggiunta, è stata innalzata al 12,5% l’aliquota sulla polizza Rc auto per gli infortuni al conducente. Alle compagnie sono richiesti 1,3 miliardi attraverso il versamento di un acconto pari all’85% del contributo sul premio delle assicurazioni dei veicoli e dei natanti, dovuto per l’anno precedente al gettito dalla manovra è tutto qui. Altre risorse, circa mezzo miliardo, arrivano dall’aumento delle accise sui carburanti, mentre 213 dal rincaro dei tabacchi.
Il pilastro della manovra è rappresentato dal taglio della seconda aliquota dell’Irpef per i redditi fino a 50.000 euro, dal 35 al 33%. Tra le altre voci la tassazione agevolata al 5% sugli incrementi contrattuali (per i redditi fino a 33.000 euro e per i contratti rinnovati dal 2024 al 2026). Sui premi di risultato e forme di partecipazione agli utili d’impresa, fino a 5.000 euro, l’imposta sostitutiva scende all’1%. Sale da 8 a 10 euro la soglia esentasse dei buoni pasto.
A sostegno delle imprese ci sono l’estensione fino al 30 settembre 2028 dell’iperammortamento, le risorse per il credito d’imposta Transizione 5.0 (1,3 miliardi) e Zes (532,64 milioni). L’altro destinatario delle risorse è la famiglia, alla quale sono state destinati 1,5 miliardi di euro. La manovra promette agevolazioni per il calcolo dell’Isee. Le paritarie potranno anche essere esentate dall’Imu. A neodiplomati la nuova Carta Valore Cultura per l’acquisto di materiali e prodotti culturali.
Tra i temi più dibattuti ci sono la rottamazione quinquies e gli affitti brevi. I debiti maturati dall’1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2023 potranno essere estinti attraverso una rateizzazione su 9 anni con 54 rate bimestrali, con un interesse al 3%. Per le locazioni turistiche, resta la cedolare al 21% per il primo immobile, mentre sale al 26% sul secondo e dal terzo scatta l’attività di impresa.
Alcuni dei nodi sono rimasti sospesi e saranno al centro del dibattito politico nei prossimi mesi. Resta un capitolo aperto, quello delle pensioni con la richiesta della Lega di sterilizzare l’innalzamento dell’età pensionabile che scatta dal 2027. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto che «si vedrà nel 2026» e ha ricordato che l’aumento di un mese nel 2027 e di due mesi nel 2028 dell’età pensionabile, laddove ci sarebbe stato un innalzamento automatico di tre mesi dal 2027, ha richiesto come «copertura oltre un miliardo». La legge di Bilancio, inoltre, fa saltare la possibilità di andare in pensione di vecchiaia anticipatamente cumulando la rendita della previdenza complementare. Altro cantiere aperto sempre da parte della Lega per il dopo manovra, è il ritorno alla flat tax incrementale e a quella per i giovani under 30 e under 35. Forza Italia invece punta a irrobustire il sostegno ai ceti medi e ad allargare la base dell’Irpef almeno a 60.000.
Nel 2026 il governo potrà valersi dell’ottava rata del Pnrr, pari a 12,8 miliardi di euro, inviata dalla Commissione europea a seguito della valutazione positiva sul raggiungimento di 32 obiettivi. Inoltre, è stata inoltrata anche la richiesta di pagamento della nona e penultima rata, anch’essa pari a 12,8 miliardi di euro. «L’Italia si conferma capofila in Europa nell’attuazione del Pnrr, sia per numero di obiettivi raggiunti sia per importo ricevuto, che con l’ottava rata sale a 153,2 miliardi di euro, pari al 79% della dotazione totale, a fronte della media europea del 60%», ha affermato il premier Meloni.
Dal rischio di incostituzionalità a quello di mettere in ginocchio le Corti territoriali, gli scenari più grigi erano stati paventati tutti. E invece niente. La Corte Costituzionale ha dato ragione alla misura del governo che sposta la decisione sulle convalide del trattenimento dei migranti alle Corti d’Appello. Sottraendola alle sezioni specializzate. Come stabilito in un emendamento al decreto flussi presentato poco più di un anno fa da Sara Kelany responsabile del dipartimento immigrazione di Fratelli d’Italia.
Poi a maggio, un giudice della corte d’Appello di Lecce, ritenendo che su un tema complesso come la protezione internazionale il giudicante debba essere specializzato, aveva rimesso la questione nelle mani della Corte Costituzionale. Che invece, in materia di immigrazione, ha promosso il governo a pieni voti. Diversamente dalle misure in materia di pedaggi in autostrada che saliranno del 15% o del fine vita dove il ricorso del governo contro la regione Toscana è stato accolto a metà. «Per mesi le sinistre, ong e parte della magistratura ci hanno attaccato ferocemente affermando che avremmo voluto cambiare il giudice naturale e dicendo che la norma sarebbe stata illegittima», ha commentato Kelany. «Niente di tutto questo».
Il coinvolgimento delle Corti d’Appello era nato in risposta al muro eretto dal tribunale di Roma contro i trasferimenti dei migranti in Albania, con i trattenimenti nei centri sistematicamente annullati dai giudici. Carrellate di ricorsi e altrettanti accoglimenti fotocopia.
Un’alzata di scudi da parte delle sezioni immigrazione dei tribunali civili che hanno portato l’operazione Albania ad un impasse, ad utilizzare i centri di Shengjin e Gjadër come cpr per destinatari di provvedimenti di espulsione, e quindi a congelare la funzione per cui erano nati, quella di basi per operazioni accelerate di frontiera destinate a chi sbarca da paesi sicuri.
Ma proprio questo era il punto contestato dai giudici delle sezioni immigrazione che anziché valutare le posizioni dei singoli migranti, avevano messo in dubbio il diritto da parte del governo di stilare una propria lista di Paesi sicuri. Una posizione che i giudici dichiaravano di prendere solo in punta di diritto, in linea con la Corte di giustizia europea e il principio per cui un Paese o è sicuro per tutti o non lo è.
Caso dopo caso però, con i trattenimenti dei migranti tutti sistematicamente respinti, è emersa una matrice probabilmente ideologica visto che la Corte di giustizia europea non detta ai magistrati una linea ma dà l’opportunità di un controllo giurisdizionale. Che però, curiosamente, è andato sempre in un’unica direzione. Contraria a quella del governo.
In primis Silvia Albano, a capo della sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, presidente di Magistratura democratica e sostenitrice di una lettura a dir poco estensiva del diritto di asilo.
Ora però in linea con le scelte del governo c’è anche l’Europa visto che nel 2026, probabilmente già a febbraio, sarà operativa la lista sui Paesi sicuri. Tra questi anche Egitto e Bagladesh, rigorosamente nella black list dei Paesi più insicuri secondo i giudici. «I riconoscimenti che stiamo ottenendo a livello europeo dimostrano che le nostre decisioni non sono prese sulla base dell’ideologia ma della legge. Le persone hanno bisogno di norme certe di capire chi può essere accolto e chi no. A beneficio anche di chi ha veramente diritto alla protezione», così il senatore Marco Scurria di Fdi. Soddisfazione dalla maggioranza, con Nicola Molteni, sottosegretario al ministero dell’Interno che spiega come la decisione della Corte conferma che la strada intrapresa dal governo per contrastare l’immigrazione irregolare, di massa, senza regole è quella giusta. «Oltre il 35% dei reati in Italia sono connessi da stranieri che diventano oltre il 50% per i reati predatori da strada. Quindi bloccare l’immigrazione illegale è funzionale per garantire sicurezza nelle nostre città».
Linea sostenuta da sempre anche dall’europarlamentare della Lega Anna Cisint che punta il dito contro i rallentamenti causati da iniziative giudiziarie «su un tema che invece richiede decisioni rapide e responsabili. È sempre più ovvio quanto nel nostro Paese sia necessaria la separazione delle carriere. La gestione dei temi legati ai migranti irregolari, ai trattenimenti e alle procedure di estradizione è condizionata dall’azione congiunta di una parte della politica e della magistratura che operano secondo logiche ideologiche».










