Calci, pugni e sciopero ma non solo. La brutta storia che venerdì ha visto come epicentro Genova e i sindacati, con una ventina di persone riconducibili alla Fiom che hanno inseguito e picchiato 5 colleghi della Uilm colpevoli di non aver partecipato alla serrata per l’ex Ilva, racconta anche altro. Racconta di un Maurizio Landini che oltre a non condannare la violenza ha smarrito il controllo dei suoi in un’azienda e un territorio caldissimi. E dice di un segretario della Cgil che sta perdendo la fiducia dei lavoratori soprattutto lì dove le partite dell’occupazione sono complesse. Nelle fabbriche più ostiche, ma non solo.
A partire appunto dall’ex Ilva, dove negli scorsi anni è andato in scena un clamoroso sorpasso. Nel sito di Taranto, che per mille motivi (storia imprenditoriale, giudiziaria e politica) può essere considerato l’emblema delle difficoltà del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno, la Uilm è il primo sindacato. E passi. Il problema è che la Fiom è scivolata via via nelle posizioni di retroguardia diventando nel 2023 (su una platea elettorale di 8.100 dipendenti ha votato circa il 70% della forza lavoro) la quarta forza di rappresentanza, dietro anche alla Fim (i metalmeccanici della Cisl) e all’Usb.
Storia nota che non ha insegnato molto alla leadership di Landini. Perché a furia di fare opposizione a prescindere al governo e di pensare a referendum, talk show e interviste sui giornali (con una smaccata preferenza per quelli del gruppo Gedi) si finisce per non avere più il polso di quanto succede sul territorio. Prendiamo Stellantis, Cnh, Iveco e Ferrari, dove la Fiom dal 2011 non firma il contratto (Ccsl) ad hoc dei vari gruppi e si è praticamente ritirata dalla competizione elettorale aziendale. Insomma, il primo sindacato italiano che rinuncia ai delegati in pezzi fondanti di un settore industriale, automotive e dintorni, che sta vivendo una delle peggiori crisi di sempre. Paradossale.
Oppure l’edilizia, dove nella conta degli iscritti certificati dal sistema delle casse edili la Filca Cisl da due anni ha superato la Fillea Cgil. Che è costantemente indietro anche per numero di rappresentanti nei cantieri delle grandi opere. Dai lavori per l’alta velocità Bari-Napoli (Webuild-Pizzarotti) per arrivare a quelli sulla A1 Barberino/Variante di Valico fino al Tunnel del Brennero (consorzio Dolomiti).
Sono solo esempi. Perché la diaspora di rappresentanti dal sindacato rosso riguarda a macchia di leopardo tutto il Paese. Ancora nel Mezzogiorno, dove la questione lavoro è più sentita, pochi mesi fa si sono svolte le elezioni per le Rsu (rappresentanze sindacali) delle Acciaierie di Sicilia. Secondo sito siderurgico del Sud. Qui è stato abbastanza clamoroso il successo dell’Ugl, con la Cgil finita solo terza, un unico delegato.
Anche nel bolognese, roccaforte rossa per eccellenza, le elezioni del 2025 per le Rsu hanno portato alla Cgil sorprese spiacevoli, con la Cisl che è diventata maggioranza in tre aziende. Alla Ghibson di Zola Predosa, storica fabbrica che produce da oltre quarant’anni valvole per uso industriali, acquisita nel 2022 dal Gruppo Bonomi, le urne hanno rovesciato completamente gli equilibri sindacali: la Fim che ha ottenuto tre delegati e la Fiom è rimasta a bocca asciutta. Alla Zarri di Castello d’Argile, attiva nel settore della produzione di componenti metallici e fissaggi, dove il confronto tra Cisl e Fiom si è chiuso 2 a 1, stesso risultato alla Corradi di Castelmaggiore, che produce pergolati in alluminio.
Anche in Friuli-Venezia Giulia, in provincia di Pordenone, il sindacato «rosso» perde terreno. Fino a poco tempo fa nello stabilimento della Bertoja, produttrice di semirimorchi per trasporti speciali, la Fiom poteva contare su tre rappresentanti. Quest’anno gli equilibri sono cambiati, e la Fim ha ottenuto due delegati, mentre la Fiom ne ha portato a casa solo uno. Alla Brovedani, dove prima gli uomini della Fiom erano la maggioranza, oggi ci sono tre Fim, 2 Fiom e uno Uilm. Alla Terex, produttrice di gru, la Fim si è confermata come prima forza, con due delegati contro uno della Fiom.
In Toscana il caso forse più eclatante è quello della Hitachi Rail di Pistoia, l’ex AnsaldoBreda (ceduta nel 2015 dall’allora Finmeccanica ai giapponesi), dove vengono prodotti una parte dei nuovi Frecciarossa 1000 utilizzati da Trenitalia. Dopo la privatizzazione all’interno dello stabilimento di Pistoia, per anni roccaforte della Fiom, gli equilibri sindacali sono progressivamente mutati. Da circa cinque anni la Fim fa incetta di delegati, seguita dalla Uilm.
Nel settore delle aziende elettriche ormai la Flaei Cisl è il principale sindacato, forte soprattutto di una rappresentanza in Enel arrivata al 48% e al 50% in A2A. «Dentro Enel abbiamo superato la Cgil già nel 2009», spiega alla Verità Amedeo Testa, segretario generale Flaei, che poi aggiunge: «Oggi nel comparto rappresentiamo sostanzialmente un lavoratore su due». Comparto che sta seguendo le orme tracciate da Poste Italiane, dove oggi il 54% dei rappresentanti è nelle mani della Cisl, che all’interno di Fondoposte, il fondo previdenziale dei dipendenti, arriva addirittura al 61%. Percentuali che, in linea puramente teorica, potrebbero consentire perfino di chiudere accordi senza gli altri sindacati.
La Commissione europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, si conferma campione della globalizzazione, con l’annuncio dell’apertura di una revisione sui dazi applicati alle auto elettriche prodotte in Cina dal Gruppo Volkswagen.
La ex potenza industriale Europa si sta trasformando in una colonia commerciale e il simbolo di questa triste parabola è la disastrosa imposizione dell’auto elettrica da parte dell’Unione europea, che ora si arricchisce di un nuovo capitolo: esentare dai dazi le importazioni delle auto Volkswagen prodotte in Cina.
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
Pagliuzze e lenti al contrario, è sempre una questione di prospettiva. Sembra di sentirla Elly Schlein mentre lancia «l’allarme democratico» su ogni emendamento bocciato dall’esecutivo; sembra di vederla la ditta Bonelli&Fratoianni mentre sfila sotto lo striscione «pacifismo e resistenza» anche al corteo contro i test di Medicina all’università. Dal primo giorno del governo di Giorgia Meloni, la sinistra (con tutte le sue sfumature di rosso) mette in guardia il popolo dalle derive autoritarie, dalle tentazioni squadriste, dagli eccessi della polizia col manganello, dalle «coazioni a ripetere» in camicia ovviamente nera. Poi, liberata la coscienza, scende in piazza e mena. Scende in piazza e brucia i libri. Scende in piazza e fa scoppiare bombe chiodate in mezzo ai poliziotti. Con la consueta giustificazione: c’è il compagno che bisbiglia e quello che sbaglia.
Non si tratta di una provocazione dadaista, è la fotografia di un 2025 cominciato con il proposito di Maurizio Landini: «È arrivato il momento di una vera rivolta sociale». E concluso (forse, magari, chissà) con l’inseguimento a Genova di alcuni energumeni Fiom ai delegati della Uilm, con corollario artistico di calci e pugni in testa. Perché? Andavano convinti a fare sciopero. Mentre osservano con la lente le pagliuzze negli occhi degli altri, i pacifisti per decreto non hanno paura di mostrare travi grandi come l’albero maestro dell’Amerigo Vespucci. Nessuno gliele fa notare, men che meno i media compiacenti. Ergo, non esistono. Quindi si può procedere a esibire la mercanzia in ogni settore merceologico dell’opposizione violenta.
Violenta nelle manifestazioni pubbliche dove lo scontro fisico è tornato ad essere - dopo anni di concertazione con i questori - un imperativo categorico. In nome della pace e della causa Pro Pal si sfasciano vetrine, si bruciano automobili, si devastano luoghi pubblici. Centri sociali e Collettivi studenteschi di estrema sinistra sono liberi di pascolare nelle città (Roma, Milano, Genova, Torino ma anche Pisa, Venezia, Bari) cercando lo scontro con le forze dell’ordine perché «la rivolta sociale» chiamata da Landini non è un pranzo di gala.
Nel 2024 sono finiti all’ospedale 273 agenti, +127% rispetto all’anno precedente, con tendenza al peggioramento significativo nell’anno che sta per concludersi; per ora i feriti in divisa sono 325 (+52%). I fascisti sono gli altri, nel frattempo i manovali della rivoluzione permanente menano che è un piacere. Occhio alle pagliuzze e occhi neri.
L’esempio più recente di doppia morale è stato l’assalto alla redazione de La Stampa di Torino da parte dei black block di Askatasuna. Stupefacente la leggiadra copertura politica da parte del sindaco del Pd Stefano Lo Russo, che mentre i leonka torinesi devastavano gli uffici portava avanti il progetto per trasformare il centro sociale in «bene comune». Con la collaborazione degli ultrà da cittadinanza onoraria come Francesca Albanese, che ha preso lo spunto per definire «un monito ai giornalisti» il raid dei teppisti comunisti.
Identico principio per la violenza antisemita, ricomparsa sotto le keffiah e condita con l’ipocrisia di chi oggi governa la piazza usandola come arma contundente per governare domani il Paese. Ebrei all’indice, genocidio palestinese, Israele paragonato alla Germania nazista, la sinagoga di Monteverde a Roma imbrattata: a messaggi brutali seguono azioni brutali. E l’album di famiglia è sempre lo stesso. La sinistra radicale di Schlein si chiama fuori ma mostra la corda sul disegno di legge di Graziano Delrio (contrasto all’antisemitismo) per non irritare i Pro Pal. «Era un’iniziativa personale, non del partito», ha preso le distanze il Correntone del Nazareno. Come se stesse difendendo gli estremisti che al grido di «fuori i sionisti dall’università» a Ca’ Foscari hanno impedito a Emanuele Fiano di parlare.
«Mi hanno fatto il gesto della P38, anche mio padre fu zittito durante il fascismo», ha detto quasi in lacrime l’ex deputato dem. Poi, per un curioso riflesso condizionato antifa, ha fatto anche lui il tifo per la cacciata dalla rassegna libraria «Più libri più liberi» della piccola casa editrice di destra Passaggio al bosco, immediatamente mascariata di «nazifascismo». Caro Fiano, questa è coerenza. Così, oltre alla violenza fisica e a quella ideologica, ecco che nelle pieghe del progressismo illuminato si annida la violenza culturale. Con gli intellettuali cosiddetti liberal a reggere la coda alla censura: Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Corrado Augias, il triste fumettista Zerocalcare.
Ottanta campioni del pluralismo a senso unico schierati a zona integrale, con in mano il fiammifero per mandare al rogo titoli che non piacciono, junk ideology, impraticabile per gente che si pretende alla moda. La kultur che passa la frontiera senza il rischio del controllo è quella delle idee liofilizzate: marxismo elementare, resistenzialismo apologetico, terzomondismo da delegata Onu, anticapitalismo studiato sui bigini. Dove la Storia non è più una scienza ma un genere letterario. Il brodo di coltura del perfetto doganiere del pensiero, che grida alla dittatura degli altri prima di usare la clava in proprio.









