La Commissione europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, si conferma campione della globalizzazione, con l’annuncio dell’apertura di una revisione sui dazi applicati alle auto elettriche prodotte in Cina dal Gruppo Volkswagen.
La ex potenza industriale Europa si sta trasformando in una colonia commerciale e il simbolo di questa triste parabola è la disastrosa imposizione dell’auto elettrica da parte dell’Unione europea, che ora si arricchisce di un nuovo capitolo: esentare dai dazi le importazioni delle auto Volkswagen prodotte in Cina.
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
Botte e insulti (con condanne in Tribunale) tra sindacalisti. Succede anche a questo a Genova, in un periodo in cui la città fibrilla per il rischio chiusura dell’acciaieria ex Ilva di Cornigliano. Il segretario generale della Uilm Luigi Pinasco e tre colleghi, ieri, sono stati presi a calci e pugni da una ventina di persone con la felpa rosso-nera della Fiom. È successo a Genova, di mattina presto. Una scena che ricorda una delle tante cronache di giornata sui maranza o sugli ultrà. Non quelle che riguardano chi dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori. Due persone sono finite in ospedale. Perché? Per la mancata adesione della Uilm allo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi sulla vertenza ex Ilva. I colpevoli sono i «militanti di Lotta comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom», accusa il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri, in una conferenza stampa nel pomeriggio.
«Sono stati circondati dopo che il segretario della Fiom ha incitato i nostri segretari e delegati ad andare via», continua Serri, «una violenza gravissima che dev’essere condannata, ma ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno un segno di solidarietà da parte della Cgil, anzi abbiamo visto le dichiarazioni di Maurizio Landini e Michele De Palma che non condannano ma sostengono che i nostri iscritti non dovevano presentarsi all’ingresso dell’ex Ilva». Una cosa grave. «C’è una responsabilità morale di chi continua a non condannare l’aggressione» ha aggiunto il leader della Uilm ligure. «Se non c’è una condanna vuol dire che c’è una strategia dietro come noi pensiamo, una strategia di essere i primi, di predominare, di fare solo confusione, una strategia della violenza».
La mancata solidarietà tuttavia deriverebbe proprio dal problema denunciato da Serri, ovvero che Lotta comunista sta prendendo piede all’interno delle tute blu della Cgil e che Landini non possa condannare per evitare che si scopra l’indicibile: il segretario generale del sindacato principale italiano non controlla i metalmeccanici di Genova. Non proprio una bella figura per un leader che viene proprio dalla Fiom.
Lotta comunista nasce nel 1965 a Genova, messa in piedi da Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, ex militanti dell’area anarchica e libertaria, poi approdati al leninismo. Il riferimento è esplicito: Marx, Engels e Lenin come cassetta degli attrezzi teorica, il partito bolscevico come modello organizzativo. Ma senza avventure armate: a differenza di altri gruppi extraparlamentari, Lotta comunista non ha mai appoggiato l’uso della P38, sostenendo che «la rivoluzione non può effettuarsi senza la crisi del capitalismo a livello globale». La linea è costruire un partito leninista nelle aree industriali chiave (Genova e il triangolo del Nord) e farlo con una macchina militante e un giornale omonimo, pubblicato ininterrottamente dal 1965 e autofinanziato. Dalle cronache recenti si evince, però, che ad alcuni suoi militanti prudono le mani: il 23 maggio 2024 un gruppo di militanti ha aggredito alcuni studenti accampati alla Sapienza di Roma, in protesta contro la rettrice e gli accordi con le università israeliane. Una contraddizione vistosa per chi, per decenni, ha rivendicato rigore teorico e disciplina politica.
Per Landini tuttavia non c’è solo la grana «tute blu». Il 15 aprile scorso, a Sestri Ponente, il sindacalista della Fillea, Fabiano Mura, denunciò un’aggressione fascista, scatenando cortei, solidarietà politica e titoli indignati. Le indagini della Digos, però, hanno smontato pezzo per pezzo il suo racconto: orari incompatibili, auto ferma in garage, nessuna fuga, niente pestaggio. Mura ha ammesso in Procura di aver inventato tutto ed è finito indagato per simulazione di reato. Un mese fa il giudice lo ha ammesso alla prova e il sindacalista ha evitato il processo. Resta la figuraccia, che il sindacato finge di non vedere. Imbarazzo anche alla Filcams, la sigla che raduna i lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi, dove non tira una bella aria. Per circa quattro mesi l’ex segretario organizzativo della Filcams locale è stato preso di mira su una chat di gruppo da alcuni colleghi. Un crescendo di insulti e attacchi personali, un vero e proprio body shaming, che il poveretto ha provato a interrompere rappresentando la questione ai piani alti della Cgil a Roma e scrivendo direttamente a Landini. Senza ottenere soddisfazione.
La vittima ha raccontato al Secolo XIX: «Confidavo nel fatto di poter lavare i panni sporchi in casa, ma non è stato possibile. Una realtà come la nostra, che giustamente condanna certi comportamenti nelle aziende, dovrebbe risolvere questo genere di comportamenti al proprio interno. Eppure ho dovuto cercare giustizia altrove». Assistito dall’avvocato Antonio Rubino ha sporto denuncia contro quattro colleghi. È partito così un procedimento per diffamazione semplice che si è chiuso con il pagamento di 2.400 euro da parte dei quattro imputati. Una cifra che Mascia non ha ritenuto soddisfacente, ma il giudice di pace Rita Taglialatela sì e per questo ha dichiarato l’estinzione del reato «per intervenuta riparazione del danno», una soluzione prevista dalla Riforma Cartabia. «La questione economica per me non è importante» ha spiegato Mascia, in pensione dopo quarant’anni di impegno sindacale. «Avevo già chiesto loro le scuse su quella chat e non sono arrivate. A questo punto continuerò a portare avanti la mia battaglia con una causa civile».
Mascia aveva denunciato presunte problematiche interne alla Filcams genovese e dall’agosto del 2021 era stato distaccato alla Cgil confederale genovese. Una decisione che gli aveva fatto guadagnare l’ostilità di alcuni colleghi. E così, in quel periodo di allontanamento, anche per un presunto equivoco (non aveva partecipato al funerale di un famigliare di un collega), era stato coperto di insulti nella chat a cui partecipavano una ventina di dipendenti della Filcams, ma non più lui, che così non aveva potuto replicare. Ma era stato informato di quanto stava accadendo da alcuni amici. Aveva così potuto leggere, negli screenshot ricevuti, amenità come quelle riportate nella sentenza del giudice: «Pezzo di m. puzzolente, vieni quando ci sono io»; «ti ho scorrazzato uomo di m.»; «senza palle di m.»; «sei piccolo piccolo e tinto»; «la spazzatura si accoppia con la rumenta»; «metti due cacche così ti inguai stasera dai»; «va’, dai le metto», seguito da sette emoticon raffiguranti delle feci. Un tiro al bersaglio che ha portato alla sbarra Giovanni Bucchioni, Marco Carmassi, Fabio Piccini e Patrizia Geminiani. «Il primo aprile del 2022 sono stato convocato a Roma dalla segreteria nazionale Filcams e ho esposto le problematiche che avevo sollevato e ho mostrato gli screenshot dei messaggi, spiegando che non essendo nella chat non potevo nemmeno difendermi» ha detto sempre al Secolo XIX Mascia. «Lo stesso materiale l’ho inviato anche alla segreteria nazionale della Cgil all’attenzione del segretario nazionale». L’ex sindacalista si è anche rivolto alla Commissione di garanzia Nord Ovest chiedendo un’ispezione. Inutilmente. Al punto che a maggio del 2022 sono arrivati altri insulti, questa volta da parte della Geminiani. Mascia, a questo punto, ha fatto denuncia e ha ottenuto una vittoria che ritiene parziale.
Ma la sua vicenda è servita ad aprire un altro squarcio su un ambiente, quello della Cgil genovese, che non è esagerato definire tossico.
Possiamo dire che la democrazia si è scollata sulle pensioni, materia incandescente per tutti. Toccare la previdenza significa toccare i fili sensibili del quadro elettrico europeo. Gli italiani lo sanno bene e ricordano perfettamente le cause che portarono al governo Monti e, tra le altre cose, alla riforma Fornero, che per prudenza nessun governo osa toccare, nemmeno l’attuale, nonostante certe promesse in campagna elettorale. A pattinare sul ghiaccio ora tocca ai tedeschi: il governo del cancelliere Merz rischiava il capitombolo proprio sulla riforma delle pensioni e se si è salvato è stato per l’aiutino della Sinistra radicale, che in teoria sarebbe all’opposizione. Per farla breve è accaduto che il partito del cancelliere, la Cdu, si è spaccata tra la componente giovanile, lo Junge Gruppe che conta 18 voti, e il resto del partito.
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
«The Rainmaker» torna in tv: il legal drama di Grisham cambia città e prospettiva
La nuova serie di The Rainmaker, prodotta anche da John Grisham, approda su Sky rinnovata per una seconda stagione. Dieci episodi tra Charleston e le zone d’ombra della legalità, seguendo il percorso di un Rudy Baylor più ingenuo e disincantato.
The Rainmaker ha già avuto i suoi passaggi fortunati, prima bestseller, poi pellicola a firma di Francis Ford Coppola. Ma la storia di John Grisham, parabola perfetta per descrivere la mutevolezza delle idee, specie di quelle che l'ambizione, il potere e il denaro possono plasmare a proprio piacimento, non ha finito di chiedere adattamenti. L'ultimo, voluto tra gli altri dallo stesso Grisham, annoverato tra i produttori esecutivi, ha la forma di un racconto seriale, declinato in dieci episodi e rinnovato anzitempo per una seconda stagione.
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.










