Nel 2025 i mutui a tasso variabile hanno visto un calo medio delle rate, mentre i fissi sono lievemente aumentati. Gli esperti sottolineano che la scelta dipende dal profilo del mutuatario e dalle proprie esigenze di rischio e stabilità.
Il bilancio dell’anno, anche dopo l’ultima decisione della Bce di lasciare i tassi invariati, racconta una dinamica chiara: chi ha un mutuo a tasso variabile ha visto (o sta vedendo) un alleggerimento delle rate, mentre sul fronte dei fissi le condizioni si sono leggermente irrigidite.
Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
Da attacco, difesa, perlustrazione, aerei, navali e terrestri. Oggi il problema è produrli velocemente e a basso costo senza dipendere dalla Cina. Ma per l’Europa è più difficile: a giocare contro sono i costi, i materiali rari fino alle nostre normative anti inquinamento.
Come era già accaduto durante molti altri conflitti avvenuti nei secoli scorsi, anche la guerra russo-ucraina ha costretto le parti in guerra a innovare nel campo della tecnologia. Nello scenario ucraino nessuna delle due parti ha potuto fare ampio uso di mezzi aerei tradizionali a causa delle dense difese aeree presenti e li sta usando soltanto per missioni particolari a medio e lungo raggio. Tutto il resto lo fanno artiglieria e soprattutto i droni, in prevalenza aerei ma anche navali e terrestri, questi ultimi entrati in azione a livello sperimentale. Così i droni stanno ora dominando la guerra e stando ai dati provenienti dal fronte essi stanno causando almeno il 60% delle vittime.
Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
Davide Rondoni: «La destra ha l’egemonia. Ma la cultura non si fa soltanto con la politica»
Poeta, cattolico romagnolo anticlericale, presidente del Comitato per le celebrazioni a 800 anni dalla morte di San Francesco e autore di La ferita, la letizia (Fazi Editore), Davide Rondoni predilige i trasversalismi e rifugge le divisioni schematiche tra destra e sinistra. Soprattutto, rifiuta l’idea della «politica come banco di prova di tutto».
Davide Rondoni, lei sta con Marcello Veneziani o con il ministro della Cultura, Alessandro Giuli?
«Io sto con Davide Rondoni. Sono amico di Veneziani e anche di Giuli, così come ho tanti amici in ambienti culturali diversi dal mio perché ritengo la capacità di amicizia, che non coincide con il consenso, uno degli insegnamenti più preziosi».
Tornando a Veneziani e Giuli?
«Credo che Veneziani abbia il diritto di criticare, ma forse da un intellettuale mi aspetterei anche delle proposte. Perciò posso capire che di fronte a una critica senza appello il ministro abbia mostrato le unghie».
Ha torto Veneziani quando dice che con il governo Meloni per gli italiani è cambiato poco o nulla?
«Bisogna vedere quanto è largo il campo di osservazione. Per esempio, la posizione dell’Italia in Europa è più forte di prima e questo rappresenta una speranza per un’Europa altrimenti votata al fallimento. Poi mi pare che iniziative importanti siano state prese nel campo della lotta alle dipendenze e nell’attenzione ad alcune esigenze del ceto medio. Certo, occorre fare di più per incentivare i giovani che sono la vera questione dell’Italia di oggi. Su questo punto mi aspetto delle proposte. Soprattutto, confido in alcuni radicali cambiamenti della scuola e dell’università. Anche su questo l’iniziativa degli intellettuali sarebbe opportuna».
Veneziani esorta a dire e fare qualcosa di destra come, in campo opposto, Nanni Moretti invitava D’Alema a dire qualcosa di sinistra?
«Non credo che Veneziani sia così banale, credo che voglia spronare a un’accelerazione. Poi, insisto, non esiste una cultura di destra e una di sinistra».
Il fatto di appartenere alla stessa area elimina il diritto di critica?
«Intanto bisogna capire che cos’è un’area culturale. Esistono aree politiche in cui convivono culture molto diverse».
All’interno della destra ci sono culture differenti?
«Ovviamente. Ma noi analizziamo sempre la cultura dal punto di vista della politica, come se la cultura si compisse nella politica. Mentre invece è il senso critico nei confronti dell’esistenza. Per esempio, ci sono culture che riconoscono il trascendente e culture che non lo riconoscono. Oppure culture che vedono nello Stato il massimo livello della vita pubblica e altre no».
La critica di un intellettuale o quella di un giornale d’area possono essere fonte di arricchimento?
«Se sono intelligenti, certamente».
Come ha trovato la replica del ministro Alessandro Giuli?
«Giuli è un uomo che ama il gesto elegante».
Ottimo eufemismo.
«Ama i gesti un po’ esagerati che appartengono alla sua estetica. Quindi capisco che abbia voluto fare un gesto del genere in risposta a una critica assoluta e, per alcune cose che sta realizzando, un po’ ingenerosa».
Sarebbe stato un segnale di maturità raccogliere la provocazione e invitare Veneziani a suggerire delle riforme o delle iniziative soddisfacenti?
«Non siamo di fronte a due bambini, quindi è inutile dettare il manuale di comportamento».
Ha ragione Franco Cardini quando dice che non ci sono più i Giuseppe Berto e gli Alfredo Cattabiani e il livello intellettuale della destra è crollato?
«Non so a quale perimetro si riferisce Cardini. Come ho già detto non considero destra e sinistra come campi culturali, ma come campi politici. All’amico Cardini dico di stare attenti a non incorrere nel rischio che molti anziani hanno di idealizzare i tempi della loro giovinezza».
È inevitabile che dopo decenni di egemonia della sinistra un cambio di orientamento radicale comporti assestamenti e contraccolpi anche nell’area culturale di riferimento?
«Se ci fosse stata l’egemonia culturale di sinistra non ci sarebbe stato Berlusconi al governo per vent’anni e non ci sarebbe Giorgia Meloni adesso. C’era forse una maggiore organizzazione degli apparati, ma questo non è cultura».
La maggioranza silenziosa esisteva e non aveva voce se non al momento del voto.
«Alessandro Manzoni ci insegna che il succo della storia lo tirano Renzo e Lucia, due ragazzi del popolo, e non i direttori dei giornali. Questo è un avvertimento su ciò che consideriamo cultura. Penso che mia nonna Peppa fosse molto più intelligente sulla vita di tanti blasonati editorialisti di giornale».
Che opinione ha dell’ultimo raduno di Atreju?
«Non c’ero mai stato prima e quest’anno sono andato perché mi hanno invitato per una conferenza. Non mi permetto di dare giudizi assoluti, mi è parsa una manifestazione popolare».
Giordano Bruno Guerri dice che Meloni preferisce una squadra compatta «con una fede enorme nel silenzio assertivo». Per questo, davanti a una critica il ministro ha reagito in modo così duro?
«Mi sembra offensivo pensare che ci siano intellettuali che prediligono il silenzio assertivo. Faccio un esempio: all’ultima conferenza nazionale sulle dipendenze, Giorgia Meloni ha concluso il suo intervento citando un mio articolo in cui spronavo il governo a fare di più per i giovani».
Che cosa propone per i giovani?
«Constato un paradosso: i nostri giovani sono competitivi e vincenti in tutti gli sport, ma poi sembra che per lavorare a certi livelli debbano andare all’estero. Cioè: abbiamo ragazzi bravi, ma non li facciamo correre. Perciò, avanzo due proposte scomode. La prima: rivedere gli ordini professionali perché favoriscano i giovani invece di rallentarli. La seconda: togliere il valore legale al titolo di studio».
Con quale obiettivo?
«Riconoscere l’energia dei nostri ragazzi e non mortificarli. Invito Giuli, Veneziani e Cardini a unirsi in questa battaglia per una giovane Italia».
La Rai è il test del cambiamento prodotto da un governo: qual è il suo giudizio sulla Rai attuale?
«Mi pare di vedere qualche fiction di buona qualità ed esperimenti interessanti di nuovi programmi. Poi preferisco parlare di poesia più che di televisione».
C’era una volta la dinastia Agnelli, quella che ha dominato l’Italia per decenni. E poi c’era Maria Sole Agnelli, la più defilata, la più elegante, la meno interessata ai bulloni del potere industriale. Quella che, potendo sedersi al tavolo dove si decideva il destino della Fiat, preferì sempre un altro tavolo: quello della vita, della cultura, dei cavalli, dei comuni di Provincia, delle scuole da rimettere a posto. È morta ieri, a 100 anni compiuti, chiudendo in silenzio un capitolo laterale ma indispensabile della saga Agnelli.
Maria Sole a differenza di Susanna, non si è mai occupata attivamente del gruppo Fiat, nemmeno nei momenti più difficili, quelli delle crisi industriali, delle ristrutturazioni, delle notti lunghe in corso Marconi. Non per disinteresse, ma per scelta. Delegò tutto prima a Gianni e poi al nipote John Elkann con quella distanza gentile che è spesso più incisiva della presenza ossessiva.
Nata a Villar Perosa il 9 agosto 1925 Maria Sole arrivò al mondo quando il nome Agnelli era già sinonimo di potere. Mentre Gianni si preparava a diventare «l’Avvocato» e Susanna a frequentare la diplomazia e la politica nazionale, Maria Sole costruiva un profilo tutto suo. Moderna senza clamore, indipendente senza mai doverlo rivendicare. Non amava i riflettori, ma sapeva usarli quando serviva. E soprattutto sapeva spegnerli. La sua prima grande scelta di autonomia arrivò lontano da Torino e ancora più lontano dalla Fiat: l’Umbria. Dopo la morte del primo marito, Ranieri Campello della Spina, Maria Sole accettò una sfida che nessuno si aspettava: diventare sindaco di Campello sul Clitunno. Era il 1960, l’Italia stava scoprendo il boom economico e le donne in politica erano ancora un’eccezione. Lei vinse senza comizi, senza slogan, senza campagne elettorali. Ottocentocinquanta voti su 1.200 aventi diritto. Un plebiscito senza la Fiat sullo sfondo. Per dieci anni, fino al 1970, amministrò il piccolo Comune umbro con concretezza e buon senso: strade, scuole, valorizzazione delle Fonti del Clitunno, turismo culturale ed enogastronomico quando ancora non era una moda ma una necessità.
Accanto alla politica, un’altra grande passione: i cavalli. Una vocazione autentica. La sua scuderia divenne una delle più importanti del secondo dopoguerra italiano. Il purosangue Woodland la portò sul podio olimpico, con la medaglia d’argento nell’equitazione individuale ai Giochi di Monaco del 1972.
La famiglia rimase sempre il centro di gravità permanente. Dal primo matrimonio nacquero Virginia, Argenta, Cintia e Bernardino; dal secondo, con Pio Teodorani Fabbri, arrivò Edoardo.
Se c’è stato un luogo in cui Maria Sole ha esercitato un’influenza profonda e duratura, quello è stata la Fondazione Agnelli. Per 14 anni, fino al 2018, ne è stata presidente, guidando progetti su istruzione, cultura e ricerca. Lì, lontano dalle catene di montaggio e dalle assemblee degli azionisti, Maria Sole ha lasciato un segno concreto, puntando sulle scuole, sulle nuove generazioni, sulla qualità del sistema educativo. Un lavoro silenzioso, ma decisivo. Come lei.
Negli ultimi anni era tornata suo malgrado sotto i riflettori per una rapina choc nella sua villa di Torrimpietra, vicino a Roma. Un episodio di cronaca nera che aveva colpito l’opinione pubblica più per il nome che per i gioielli rubati. Lei, anche in quel caso, aveva attraversato l’evento con la stessa compostezza con cui aveva attraversato un secolo intero.















