Chissà se le persone che sabato hanno sfilato in ricordo di Giulia Cecchettin, urlando slogan contro il patriarcato e, ovviamente, contro il governo Meloni, lo hanno letto. Al loro fianco avevano alcune esponenti dei movimenti di liberazione della Palestina, le quali esibivano cartelli contro Israele, inneggiando alle donne che resistono. «Siamo entrambe (lei e Giulia, presumo, ndr) vittime di uno Stato repressivo», ha spiegato una ragazza con la kefiah. «Non credo che si possa dire che la Palestina è più maschilista dell’Italia».
Non so che concetto di maschilismo avesse quella giovane in corteo. Tuttavia, a lei e alle sue compagne consiglierei la lettura di un rapporto dal titolo «Il femminicidio nella società palestinese». Si tratta di 8 pagine, predisposte due anni fa dal Centro di assistenza e consulenza legale di una coalizione di 17 Ong palestinesi che si battono contro la violenza nei confronti delle donne. La relazione spiega che, nonostante l’adesione dello Stato palestinese alla convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, i progressi compiuti per ridurre il tasso di crimini e di femminicidi sono molto limitati. I dati, infatti, non fanno intravedere grandi miglioramenti, anzi. Secondo un’indagine condotta dall’Ufficio centrale di statistica palestinese, il 29% delle donne ha subito una qualche forma di violenza, non in tutta la loro vita ma negli ultimi dodici mesi presi in considerazione. A Gaza, addirittura, si arriva al 38%, in Cisgiordania al 24%.
Ma violenza può voler dire tutto o niente. E, dunque, il centro che raggruppa le 17 Ong palestinesi ha documentato 37 casi di femminicidio nel solo 2020 (18 a Ramallah e dintorni, 19 nella Striscia), in crescita rispetto ai 21 del 2019. In soli cinque anni le donne assassinate sono state 149, ma nel 2020 è stato registrato il 25% degli omicidi. In uno studio che ha preso in analisi le uccisioni fra il 2016 e il 2018, su 76 casi il 41% erano donne sposate, il 42% erano single e l’8% erano vedove. Il 37% aveva tra i 18 e i 29 anni, mentre il 18% era ancora minorenne.
Tuttavia, nella ricerca dell’associazione c’è un dato che spiega meglio di qualsiasi argomento che cosa sia davvero la società patriarcale e quale genere di influenza eserciti sulla vita delle donne e quali responsabilità abbia nei femminicidi. Infatti, nel 27% dei casi l’assassino era il fratello (o i fratelli), nel 23% erano il marito o il padre, nel 14%, invece, i figli della vittima e per il resto gli zii o altri parenti. In pratica, ad armare la mano degli assassini era sì la famiglia patriarcale, perché l’omicidio non era frutto di una relazione tossica con il marito o l’amante geloso che spara o accoltella. No, nei casi presi in esame a incaricarsi di «eliminare» la donna era un parente stretto.
A colpire, però, non è soltanto l’alto numero di femminicidi e l’alta percentuale di fratelli, padri e figli tra gli assassini. C’è un altro aspetto che dovrebbe far riflettere coloro che sabato hanno sfilato a braccetto con i movimenti della resistenza palestinese, quasi che la lotta delle donne italiane possa sposarsi con chi ritiene che la Palestina sia maschilista quanto il nostro Paese. Il dato in questione riguarda i suicidi o i tentati suicidi che nel 2018, secondo le cifre fornite dalla Procura locale, sarebbero stati quantificati in 236, 196 compiuti da adulti e 37 da bambini. Cifre allarmanti, ma ancor più inquietante è il fatto che le morti riguardano più le donne che gli uomini, in una percentuale che fra gli adulti è addirittura doppia: 71% a 29%. Nel caso dei bambini, addirittura, si arriva al 95% di femmine e 5% di maschi. Si legge nel rapporto: «Ciò evidenzia chiaramente la forte discriminazione tra i sessi all’interno della nostra società e della nostra cultura, che porta ad alti tassi di suicidio e omicidio tra le donne e le ragazze».
È inutile dire che le cifre riportate vanno considerate fra una popolazione che fra Gaza e Cisgiordania arriva a malapena a cinque milioni di persone, dunque i numeri mettono i brividi. Un’ultima considerazione. Il rapporto ha anche monitorato l’accesso delle donne al sistema di giustizia, per concludere che le persone di sesso femminile sono discriminate e quelle che hanno deciso di denunciare spesso sono state costrette a ritrattare.
C’è altro da aggiungere? Che forse le compagne di «Non una di meno» (si chiama così il movimento che sabato è sceso in piazza spalleggiato dalla sinistra), prima di sfilare sotto le finestre di Palazzo Chigi, dovrebbe andare a protestare a Gaza e in Cisgiordania. Altro che «Siamo uguali», il maschilismo è ovunque. Provateci e poi sappiateci dire.